(Qualche tempo fa ho letto questo pezzo di Vincenzo Latronico che mi ha ricordato questo pezzo di Andrea Tarabbia che mi ha ricordato di un mio pezzo di qualche tempo fa che ripubblico qua di seguito, intorno a fiction e identità.)
Dunque, ricapitoliamo. La trama, prima di tutto. Jim, amico di Ralph, racconta le loro vicende nella California degli anni ’70. Sono due scrittori, e quindi bevono molto, fumano di più, tradiscono la moglie, si tradiscono a vicenda, per poi riappacificarsi e tradirsi di nuovo. Insegnano (più o meno) scrittura creativa e tra una sbronza e l’altra, dopo la solita scopata occasionale nel solito motel, trovano il tempo anche per scrivere, o per vivere quello che scriveranno in futuro. Che poi è la stessa cosa. O no?
Riproviamo. Ralph non è solo Ralph Crawford ma è anche e soprattutto il grande Raymond Carver, amico fraterno di Chuck Kinder, il quale è naturalmente Jim, ovvero l’autore di Lune di miele. Precauzioni per l’uso (Fazi Editore). E non è finita qui. Kinder è stato anche insegnante di scrittura creativa del giovane Michael Chabon, il quale ne ha fatto il protagonista, con lo pseudonimo di Grady Tripp, del suo Wonder Boys (Rizzoli). Nel film di Curtis Hanson tratto dal libro a interpretarlo era un irriconoscibile Michael Douglas. Offuscato dalle droghe e agghindato con una cenciosa vestaglietta rosa, faceva la parte di un professore universitario in crisi, alle prese da quasi vent’anni con un libro mastodontico. Quel libro, quel dattiloscritto sparpagliato sul pavimento sporco della sua stanza, è Lune di miele, che nel 2001, dopo più di vent’anni di faticosa gestazione, ha finalmente visto la luce. Leggendolo, si ha la bizzarra sensazione di avere assistito alla sua stesura grazie alla cortese partecipazione di Hollywood. Oppure di osservare un quadro di Gauguin che raffiguri Van Gogh mentre dipinge Gauguin.
Eppure irritarsi per tutti questi echi sarebbe sbagliato. Perché, pur approfittandone dal punto di vista promozionale, Lune di miele si addentra felicemente nel territorio misterioso della scrittura. Tutti i personaggi di Kinder sono ossessionati dalla doppia vita che rischiano di avere. Non solo chi scrive, che vivendo per scrivere si guarda bene dallo scindere le due cose. Ma anche chi non lo fa, come la moglie di Ralph-Raymond Carver che arringa il giudice del processo per una piccola truffa ad opera del marito, avvertendolo che anche lui ben presto non sarà altro che il personaggio di un racconto (e che alla fine lo è diventato, ma non di un libro di Carver). Realtà e fantasia, fiction e nonfiction si inseguono mordendosi la coda, creando un ambiguo pasticcio alimentato casualmente dal successo del libro di Chabon e dal film. E soprattutto spalancando un abisso vertiginoso sui paradossi dell’autobiografismo.
Perché è vero che Lune di miele può essere letto semplicemente come una scatenata, commovente elegia sull’immaturità cronica di due amici scrittori, senza nulla togliere al valore del libro. Ma è anche vero che è lo stesso Kinder a invitarci nel labirinto delle identità e immortalità future: “Improvvisamente Jim si chiese chi fosse il vero testimone degli eventi che si stavano verificando nelle loro vite, lui oppure Ralph, e quale dei due ne avrebbe portato il significato nella memoria. Per la primissima volta dall’inizio della loro amicizia Jim ebbe un’improvvisa paura di essersi perso, di essere rimasto sommerso, per così dire, nella memoria o nell’immaginazione di Ralph, oppure, cosa ben peggiore, nella sua fama futura”. La morale della favola? Diventate pure amici di uno scrittore. Ma solo se scrivete anche voi.
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