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Colson Whitehead e la non banalità del male

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Oggi il male è consegnato al cliché. Non si può scrivere di genocidi, olocausti, massacri senza cadere nel più banale degli stereotipi giornalistici sulla memorialistica. “Per non dimenticare”, “il valore della testimonianza”, “ricordate che questo è stato”, “la giornata della memoria”: tutto è stato ridetto fino alla nausea in quella grande aula scolastica che sono i media e i social, come una parola ripetuta troppe volte che finisce col non avere più senso. Si è partiti dal nazismo per arrivare, che so, a Fabio Volo: tutto è Male Assoluto (mi raccomando, sempre con le maiuscole), che sia Homs oppure un omicidio in provincia o perfino Maria De Filippi. Invece che aiutarci, è plausibile che questa specie di meme pseudostorico abbia anestetizzato non soltanto la nostra empatia, ma anche la nostra capacità di ragionare sulla specificità del male e, di conseguenza, di narrarlo senza cadere nella retorica. Un qualsiasi articolo sulla Shoah è diventato un discorso presidenziale di Natale, dove le parole potrebbero essere rimescolate e ridistribuite di anno in anno e di elzeviro in elzeviro, senza che il succo cambi mai, ma soprattutto senza che diventi più incisivo o interessante. Anche il nervo del linguaggio si consuma, e di conseguenza il racconto della Storia.

(Continua a leggere sul sito di IL.)

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The Kappler Inside You

Sono in un bar a mangiare un panino. Una gestione alla buona, padre e madre con i due figli. Molte discussioni di calcio, pochi giornali (al massimo, free-press).

Nel classico film ambientato durante la seconda guerra mondiale si vede la visita inaspettata della Gestapo a casa del cittadino sospetto.

Passa vicino ai tavolini fuori uno zingaro che chiede di accendere a un cliente. Il figlio più grande lo intravede, si pietrifica e lo guarda male. Un attimo dopo alza una mano e gli fa il caratteristico segno di andarsene.
“Lo vedi questo? Vuol dire smammare.”
Lo zingaro, che comunque non sembrava interessato a restare e ha scroccato una cicca, si avvia.

Nel classico film ambientato durante la seconda guerra mondiale il gelido aguzzino si aggira per la casa, chiacchiera serafico del più e del meno, finché a un certo punto non solleva una botola o non sfonda una porta.

Il figlio, che ha ancora la mano alzata, cambia la posizione delle dita. Le stringe in un pugno e fa andare su e giù il pollice. “E questo vuol dire che ti brucio.”
Quindi tocca al padre.
“Sì, dai: apri il forno che lo mettiamo dentro.”
Lo ripete quattro o cinque volte.

Nel classico film ambientato durante la seconda guerra mondiale all’improvviso vediamo dieci o venti ebrei stretti gli uni agli altri in silenzio che tremano.

Mi è capitato di leggere sui blog e sui giornali di situazioni simili, in cui il nazismo irrompe nel quotidiano nella maniera meno aspettata e ho sempre pensato che fossero resoconti esagerati. “Avranno colorito la cosa.” Adesso sono qui.

Ma è un attimo: la madre capisce che non è aria e minimizza, cercando di mettere a tacere il marito. Un secondo dopo tutto torna alla normalità. Panini, piastre, bottigliette d’acqua, trilli di cassa, cosa ha fatto l’Inter?

Nella casa di questa famiglia, invece, si nasconde il nazista. Silenzioso, tenace, deciso a sopravvivere.

 

(Questo brano è stato pubblicato originariamente sul blog collettivo http://www.ilprimoamore.com)

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