Una sera di non molti anni fa, durante una festicciola in un appartamento moscovita situato in vicolo Romanov – celebre luogo del centro città dove hanno vissuto stratificazioni diversissime di persone e personaggi, dalla nobiltà ai notabili di partito –, un imprenditore americano fa tintinnare davanti agli occhi stupefatti della studiosa Rachel Polonsky le chiavi di un appartamento al piano di sopra. In quella casa ha vissuta nientepopodimeno che Vjačeslav Michajlovič Skrjabin, meglio conosciuto con il nome di battaglia “Molotov” (dovuto alla tradizione nominalistica sovietica, sempre combattiva e ridicola: molot in russo vuol dire “martello”). Era il celebre e temuto numero due di Josif Stalin, firmatario nel 1937 di un numero di esecuzioni superiore anche a quello ratificato da Koba il Terribile: quarantatremila, una più una meno.
“Vuole andare a visitarla?”
Quando il giorno dopo la scrittrice entra nella casa, la trova quasi intatta, con i suoi oggetti preziosi, l’enorme biblioteca e soprattutto una lanterna magica, il dispositivo che anticipava il cinema e che proiettava immagini dipinte su un vetro. In quel meccanismo trova non solo una rievocazione del passato quasi fiabesca (una famiglia su uno scoglio in Crimea, uno sciamano dallo sguardo fisso), ma soprattutto l’emblema del libro che comincerà a scrivere. La lanterna magica di Molotov. Viaggio nella storia della Russia (Adelphi, traduzione di Valentina Parisi, pp. 434, € 28) è un saggio romanzesco o forse un romanzo saggistico, un libro di viaggi o forse di sogni (ma che importanza ha?), fatto dell’evanescenza impalpabile regalata alle immagini dal lume di una candela. In una prosa densa, sapiente, a volte fumosa come l’aria di una banja, a cui è bello abbandonarsi, la Polonsky ci guida attraverso le innumerevoli stratificazioni della terra russa, letterarie e politiche e geografiche.
Partendo dai libri di Molotov – per ogni libro, una storia e un luogo da esplorare (viene scartabellato perfino l’elenco telefonico Tutta Mosca del 1917) – l’autrice comincia a vagare con la mente e con il corpo. Insieme alla famiglia, muove dall’appartamento di vicolo Romanov e peregrina per l’evasivo fascino di Mosca, poi fuori città fino alle izbe di Lucino, quindi verso Novgorod e Rostov, dietro a storie di scrittori e scienziati, esuli e cosacchi, delineando un libro errabondo, affascinato dalla misteriosa anima russa, rilucente in un passato irrecuperabile. Anche per lei, come quando racconta della passione inventariale di un conte, tracciare queste storie sembra un’attività religiosa, simile alla pittura delle icone. “Il conte stava cercando l’accesso alla città morta degli antenati, così come un pittore di icone apre un portale sul mondo trascendente, calibrando il punto di vista, aggiungendo luce dorata.”
Un libro di libri, insomma, ma soprattutto di storie e di persone. O meglio di fantasmi. Sono tanti gli spettri che aleggiano ad ogni riga, trovando requie solo nella continuazione della lettura. C’è quello del bibliotecario Nikolaj Fëdorov, il “Socrate russo”, custode del Museo Rumjancev (prima che diventasse Biblioteca Lenin), che pare conoscesse a memoria tutti i volumi ed era convinto che la missione primaria dell’uomo sulla Terra fosse la resurrezione dei defunti (“Idea non così folle come sembra,” annotò Tolstoj, probabilmente dopo qualche vodka, o vangelo, di troppo). C’è quello di Walter Benjamin, accorso in Russia per vedere il luogo dove “tutto il fattuale è già teoria” e che in queste pagine si congeda dalla donna amata nell’immagine struggente di un gigante del pensiero in lacrime con in mano una valigia piena di vecchi giocattoli, acquistati per curiosità a una bancarella. C’è quello della fantomatica spia Sidney Reilly, complottista con tanto di parrucche e charme seduttivo, convinto di poter fermare la Rivoluzione d’Ottobre e costringere Lenin a sfilare con le braghe calate davanti al Cremlino (inutile a dirsi, il tentativo naufragò). C’è naturalmente lo spirito di Fëdor Dostoevskij, partito per la città di Staraja Russa per scrivere i Demonî, sorvegliato dalla polizia zarista e infastidito dall’umidità, che finisce per tornarci nel corso degli anni e scriverci anche i Fratelli Karamazov (Polonsky segue il tragitto compiuto da Mitja Karamazov nella fatidica notte del parricidio, in una sovrapposizione tra pagine e vita quasi vertiginosa). C’è il perseguitato Osip Mandel’štam con i suoi versi per Anna Achmatova, nitidi come rintocchi: “Conserva le mie parole per sempre, per il retrogusto di infelicità e di fumo”. Ci sono le povere ombre dei perseguitati politici – sequestrati, torturati, rinchiusi, uccisi – a partire da Trockij trasportato fuori casa in pantofole passando per le bellissime parole di Varlam Šalamov sull’innocenza dei lapis (“Nessuna condanna a morte è stata firmata semplicemente a matita”), fino alla schiera di scienziati – chimici, fisici, medici – che si sono visti la carriera rovinata perché costretti a piegare le proprie idee al materialismo dialettico.
Quando sul pavimento dell’appartamento da cui è iniziato tutto, Polonsky si ritrova a sfogliare l’enciclopedia sovietica, con le sue spaventose distorsioni, ecco che tra le pagine dedicate a Molotov stesso e alle città ribattezzate col suo nome, trova un capello bianco. Evidentemente ogni tanto, negli anni Ottanta, il vecchio apparatchik sopravvissuto a tutto quell’orrore amava rispecchiarsi in quelle pagine bugiarde.
Questa e altre storie infestano i libri.
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