Archivi tag: L’unico scrittore buono è quello morto

“Un’opera mobile, cangiante.” Stefano Costa, i-libri

Diversi testi già editi in riviste, il gusto per la concisione, molto di nuovo, di vario nella propria lunghezza, nel respiro della prosa. Queste caratteristiche fanno di L’unico scrittore buono è quello morto un’opera mobile, cangiante. L’ho percepita come un’opera in grado di incerare un profondo dialogo con il lettore. Proprio come durante una conversazione, infatti, ci si misura con “sezioni larghe” dall’ampio respiro prosastico – quelle che richiedono un ascolto prolungato – e con battute brevi, con ragionamenti articolati e con botta-e-risposta serrati, con invenzioni e con spunti che paiono vicini alla confessione.

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“Tragicomiche verità.” Andrea Pomella, Il Fatto Quotidiano

Ci sono recensioni che non si può fare a meno di titolare come il libro che si va a recensire, e questo perché tutti gli altri titoli possibili non potranno mai reggere il confronto. È il caso de L’unico scrittore buono è quello morto (edizioni e/o) uno di quei titoli, appunto, che non passano inosservati, soprattutto – mi sia concesso – se si è, o si è provato a essere, uno scrittore. Ma anche se si è qualcos’altro, per esempio un lettore, meglio se compulsivo, o semplicemente un appassionato di letteratura, ma talmente appassionato da aver perso la bussola.

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“Un universo di carta”. Mallarmeana, Parole senza rimedi.

“Se la poesia è dappertutto non è da nessuna parte”. Il terreno della metaletteratura, si sa, è pericolosissimo. Se lo si affronta, tuttavia, con ironia tagliente e disincanto surreale – nutrito da un bagaglio letterario raffinatissimo – il risultato è sorprendente. L’unico scrittore buono è quello morto di Marco Rossari racconta, mediante una serie di “ritratti”, di varia lunghezza, il mondo degli scrittori e della scrittura in modo acuto e sferzante. (…)

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“La strana razza degli scrittori.” Chiara Rea, Via dei serpenti

Che strana razza quella degli scrittori. Esibizionisti ma spesso schivi, ci regalano un pezzo della propria interiorità attraverso i loro libri eppure sono spesso reticenti a parlare di sé; sostengono che conta solo il testo ma poi non si sottraggono alle polemiche via web e si offendono tra di loro per questioni personali . Sono tutto e il contrario di tutto – e considerando che, in fondo, sono pur sempre persone, la cosa non meraviglia troppo.
Marco Rossari è uno che gli scrittori li ha osservati bene. Oltre a essere scrittore lui stesso, è anche traduttore, mestiere che gli ha dato la possibilità di osservare sul campo le molteplici bizzarrie caratteriali degli scrittori. Ma Rossari non conosce bene soltanto chi scrive, conosce benissimo anche i lettori, gli editori, i critici, i giornalisti e tutto quel sottobosco di strani personaggi che gravitano intorno agli scrittori: fan, groupies, antagonisti, invidiosi, adulatori, e chi più ne ha più ne metta. Rossari ha raccolto tutto questo in un libro che ha il merito di divertire senza essere vuoto e di essere leggero senza diventare frivolo.

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“Il libro sui libri.” Carlotta Susca, Pool

Pensateci. State leggendo un articolo che parla di un libro. La carta inchiostrata del volume fresco di tipografia sta generando in questo momento – sotto i vostri occhi, e per tutte le volte in cui qualcuno leggerà queste righe – una propaggine testuale. Ieri il libro di Rossari non esisteva e oggi – e da oggi in poi – altri ne scrivono e ne scriveranno, aggiungendo frasi a frasi, glosse e citazioni. Commenti. Giudizi, pareri. Teorie, perché no. Questo è ciò che succede con le parole, finisce sempre che prendono una strada propria, svincolandosi dall’autore. Questo è quello su cui riflette Rossari. E sull’editoria come sistema dagli aspetti paradossali e a volte buffi. Tolstoj invitato in una trasmissione radio italiana ai giorni nostri non potrebbe che essere in contrasto con la superficialità dei tempi attuali, con un intrattenimento culturale raccogliticcio e frettoloso; Dante affronterebbe un editor cauto, che gli consiglierebbe di uniformare il tono delle tre parti del suo manoscritto e di evitare di fare troppi nomi: non si sa mai, meglio non esporsi, di questi tempi. Joyce morirebbe inedito. Perché l’editoria sarà anche il campo degli esperti, sottintende Rossari, ma non è detto che questi pontifichino sempre per il meglio. Accanto alle scene che vedono dei mostri sacri della letteratura alle prese con i saccenti editor odierni Rossari ci propone svariati esempi di abulia da letteratura: lo scrittore che risale involontariamente al linguaggio primitivo – con conseguente incapacità di acquisto in panetteria –, quello condannato a essere osannato dalla critica nonostante i tentativi di autosabotaggio, lo scrittore invitato a un surreale reading di poesia, l’esordiente molestato dalla prima lettrice, il traduttore in crisi da intraducibilità, vittima del démone della perfezione. E il reporter sulle tracce della generazione beat, e il viaggiatore piombato in un incubo in Kafkania. L’unico scrittore buono è quello morto è l’opera colta e ironica di un addetto ai lavori ancora capace di (auto)ironia, il libro sui libri di chi sa distinguere fra letteratura e fuffa ma deve districarsi fra le due per lavoro, oscillando fra il disincanto e un ineliminabile nucleo di amore profondo per i libri. Il testo di Rossari, pubblicato da e/o, può essere letto in ordine sparso, a seconda del tempo a disposizione e dell’ispirazione, ma il quadro che se ne ricava è molto chiaro e unitario: non viviamo in tempi che facilitino l’espressione del genio letterario (verrebbe da dire, con John Barth, «Letteratura, ah! Bei tempi, quelli!»). D’altra parte, fra tanta carta e tanto inchiostro (e tanti pixel, e tanto html), sorge il dubbio che neanche gli addetti ai lavori leggano poi tantissimo, quindi non è la letteratura a essere in crisi, ma la competenza, spesso. Sicché, se qualcuno grida alla morte della letteratura, si potrebbe rispondere, citando Rossari, «C’era uno scrittore che considerava la letteratura finita, anche perché non leggeva mai un libro». Leggete (libri) e moltiplicateli.

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Ironia intelligente! Ritmo sfrenato! Alessandro Beretta, Flair.

Come si troverebbe Lev Tolstoj a rispondere in un programma radio alle domande degli ascoltatori? Cosa direbbe Shakespeare se lo accusassero di aver copiato le sue opere? Sono solo alcune delle domande surreali che lo scrittore milanese Marco Rossari ha fatto a illustri colleghi del passato rendendoli protagonisti di una brillante raccolta di racconti. Il titolo grottesco, L’unico scrittore buono è quello morto (e/o) non deve spaventare: il libro vive di un’ironia intelligente, ha un ritmo sfrenato e affianca, alle storie che smontano le icone della letteratura, racconti dedicati al mestiere precario dello scrittore contemporaneo, impegnato in reading e marketing editoriale. Un libro per chi ama la letteratura, tanto da poterla prendere in giro.

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“Racconti di racconti”. Gianni Biondillo, Cooperazione.

La letteratura che parla di se stessa (di libri, di scrittura e di autori) è un genere a sé stante, nobile e di antica tradizione. In fondo ogni scrittore passa buona parte della sua giornata a scrivere, a leggere o a ragionare di scrittura, diventa inevitabile che sia anche il centro di molta narrazione. Detto così può preoccupare l’idea di imbattersi in un libro che sembra parli esotericamente al suo ego, ma per fortuna, proprio perché l’argomento è la ragione stessa di vita dell’autore, questo genere letterario – la letteratura che parla di letteratura, una sorta di letteratura al quadrato – sa anche essere affascinante proprio come nel caso del libro di Marco Rossari, divertente già dal titolo: L’unico scrittore buono è quello morto (ed. e/o). Questo di Rossari non è un romanzo o una raccolta di racconti. Sembra piuttosto uno zibaldone, una congerie di aforismi affilatissimi e lunghi meta-racconti paradossali, dove si possono incontrare un Tolstoj invitato a parlare delle sue opere alla radio, o uno Shakespeare accusato di plagio. Molti di questi racconti di racconti sono in prima persona. Fiction di autofiction (la ridondanza e il gioco di specchi caratterizza l’intero libro) dove i molteplici Rossari – emblemi dei molteplici scrittori, poeti, traduttori, critici – si ritrovano di fronte a situazioni frustranti, assurde, umilianti. Ma non c’è né autoindulgenza né rabbia. L’autore sa che chi scrive convive con una malattia totalizzante che si accanisce sull’esistenza dandole al contempo senso. Rossari poi, dalla sua, ha la fortuna di snocciolare nelle sue pagine una cultura, non solo nozionistica o anedottica, davvero notevole. Scrive bene, cambiando spesso di tenore e registro, con autentica sapienza, regalando al lettore un libro che fa intravedere, da dentro, la macchina magica e infernale delle nostre ossessioni.

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“Storie allegramente sprecate.” Jacopo Cirillo, Finzioni

(…) Invece in questo volumetto le storie sono allegramente sprecate, 214 pagine da cui si potrebbero trarre almeno venti romanzi con trame avvincenti e una bella fascetta in cui scrivere gli attori del film tratto da. Marco Rossari, nonostante i suoi onnipresenti protagonisti, non scrive ma storia (voce del verbo storiare), e forse è proprio in un libro sulla scrittura che le storie tornano ad essere tali: solo storie, senza la scrittura di mezzo. (…) Continua a leggere su Finzioni.

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