Archivi tag: autofiction

Quel brutto vizio di narrare

26795307(Ho recensito per il magazine del Sole 24 Ore il nuovo romanzo di Michael Chabon.)

«“È tutto tuo. Te lo regalo. Quando non ci sono più, scrivilo. Spiega tutto. Mettici un significato. Usa un mucchio di quelle tue fantasiose metafore. Sistema tutto quanto nel giusto ordine cronologico, mica come il guazzabuglio che ti sto propinando io. Comincia con la notte della mia nascita. Il 2 marzo 1915. Quella sera c’era un’eclisse di luna, sai cos’è?”

“Quando l’ombra della Terra colpisce la luna.”

“Molto significativo. Sono sicuro che sia la metafora perfetta di qualcosa. Comincia da lì.”

“Un po’ scontato,” ho detto.»

Forse i posteri racconteranno del momento preciso nella cultura (letteraria) occidentale in cui l’invenzione non è più bastata. Accadde, diranno al nipotino davanti al fuoco, che ogni lettore provò un tic fastidioso: davanti a un’opera d’immaginazione domandava cosa ci fosse di vero e davanti a ogni opera ispirata a fatti realmente accaduti chiedeva cosa ci fosse di falso. Insomma, il romanzo senza il pettegolezzo non piaceva più, ma anche il memoir senza un intorbidimento delle acque aveva rotto i santissimi. Ecco che a un tratto, rinvenuta tra i sollazzi di certi oziosi intellettuali francesi, l’idea dell’autofiction aveva cominciato a dilagare. Poco importava che innumerevoli romanzieri avessero già ampiamente giocato con l’equivoco della scrittura e dell’io: non c’è niente come una nuova etichetta per rivendere un prodotto stantio. E così per lungo tempo, diranno al frugoletto, fioccarono racconti fittizi che giocavano con l’identità del narratore stesso, debitori di una fame di realtà individuata qualche anno prima in un saggio avventuroso scritto da David Shields. Era una moda?, chiederà il nipotino, un escamotage? I nuovi romanzi erano le persone? E in questo modo la verità poteva infiammare nuovamente la fantasia?

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A caccia di Philip Roth con Giulio D’Antona

Philip Roth(Qualche settimana fa Giulio D’Antona mi ha chiesto di raggiungerlo in un pub per fare quattro chiacchiere su Philip Roth. Il risultato è una conversazione finita sul suo bel blog di affari americani chez l’Espresso.)

Parlare di Philip Roth con Marco Rossari è come osservare uno chef stellato mentre dispone una parata di quaglie alla cacciatora su un letto di patate dolci. Bisognerebbe stare in silenzio e reprimere gli istinti di partecipazione, ma l’acquolina rende tutto molto più complicato. Prima di andare a caccia del mio rinoceronte bianco per la prima volta, siamo rimasti poco più di un’ora seduti fuori da un bar di Milano, con i tram che ci sferragliavano accanto e una sfilza di birre sotto il naso, a dirci tutto quello che c’è da sapere su quelli della sua specie. Lui ordinava e io gli andavo dietro. Ho provato in varie occasioni a inserire la conversazione in un contesto più ampio, ma proprio come è impossibile servire le quaglie di uno chef stellato a contorno di un’insalata marinara preconfezionata, sarebbe sbagliato relegare quello che segue a gregario di un altro discorso.

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Lost in Fiction

tumblr_lghfldpCtf1qamdvqo1_500(Qualche tempo fa ho letto questo pezzo di Vincenzo Latronico che mi ha ricordato questo pezzo di Andrea Tarabbia che mi ha ricordato di un mio pezzo di qualche tempo fa che ripubblico qua di seguito, intorno a fiction e identità.)

Dunque, ricapitoliamo. La trama, prima di tutto. Jim, amico di Ralph, racconta le loro vicende nella California degli anni ’70. Sono due scrittori, e quindi bevono molto, fumano di più, tradiscono la moglie, si tradiscono a vicenda, per poi riappacificarsi e tradirsi di nuovo. Insegnano (più o meno) scrittura creativa e tra una sbronza e l’altra, dopo la solita scopata occasionale nel solito motel, trovano il tempo anche per scrivere, o per vivere quello che scriveranno in futuro. Che poi è la stessa cosa. O no?

Riproviamo. Ralph non è solo Ralph Crawford ma è anche e soprattutto il grande Raymond Carver, amico fraterno di Chuck Kinder, il quale è naturalmente Jim, ovvero l’autore di Lune di miele. Precauzioni per l’uso (Fazi Editore). E non è finita qui. Kinder è stato anche insegnante di scrittura creativa del giovane Michael Chabon, il quale ne ha fatto il protagonista, con lo pseudonimo di Grady Tripp, del suo Wonder Boys (Rizzoli). Nel film di Curtis Hanson tratto dal libro a interpretarlo era un irriconoscibile Michael Douglas. Offuscato dalle droghe e agghindato con una cenciosa vestaglietta rosa, faceva la parte di un professore universitario in crisi, alle prese da quasi vent’anni con un libro mastodontico. Quel libro, quel dattiloscritto sparpagliato sul pavimento sporco della sua stanza, è Lune di miele, che nel 2001, dopo più di vent’anni di faticosa gestazione, ha finalmente visto la luce. Leggendolo, si ha la bizzarra sensazione di avere assistito alla sua stesura grazie alla cortese partecipazione di Hollywood. Oppure di osservare un quadro di Gauguin che raffiguri Van Gogh mentre dipinge Gauguin.

Eppure irritarsi per tutti questi echi sarebbe sbagliato. Perché, pur approfittandone dal punto di vista promozionale, Lune di miele si addentra felicemente nel territorio misterioso della scrittura. Tutti i personaggi di Kinder sono ossessionati dalla doppia vita che rischiano di avere. Non solo chi scrive, che vivendo per scrivere si guarda bene dallo scindere le due cose. Ma anche chi non lo fa, come la moglie di Ralph-Raymond Carver che arringa il giudice del processo per una piccola truffa ad opera del marito, avvertendolo che anche lui ben presto non sarà altro che il personaggio di un racconto (e che alla fine lo è diventato, ma non di un libro di Carver). Realtà e fantasia, fiction e nonfiction si inseguono mordendosi la coda, creando un ambiguo pasticcio alimentato casualmente dal successo del libro di Chabon e dal film. E soprattutto spalancando un abisso vertiginoso sui paradossi dell’autobiografismo.

Perché è vero che Lune di miele può essere letto semplicemente come una scatenata, commovente elegia sull’immaturità cronica di due amici scrittori, senza nulla togliere al valore del libro. Ma è anche vero che è lo stesso Kinder a invitarci nel labirinto delle identità e immortalità future: “Improvvisamente Jim si chiese chi fosse il vero testimone degli eventi che si stavano verificando nelle loro vite, lui oppure Ralph, e quale dei due ne avrebbe portato il significato nella memoria. Per la primissima volta dall’inizio della loro amicizia Jim ebbe un’improvvisa paura di essersi perso, di essere rimasto sommerso, per così dire, nella memoria o nell’immaginazione di Ralph, oppure, cosa ben peggiore, nella sua fama futura”. La morale della favola? Diventate pure amici di uno scrittore. Ma solo se scrivete anche voi.

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