“Putei spiritei.” La poesia tra filastrocca e traduzione.

screenhunter_07_may_12_1657“Uò cucò / putei spiritei / in punta de pinini / diiti scondarei.” Potrà sembrare una filastrocca veneta, invece è uno dei più sofisticati poeti del ventesimo secolo, tradotto in vicentino da Luigi Meneghello. Dopo aver speziato l’italiano dei suoi romanzi per lungo tempo con aromi dialettali e avere inseguito per anni il fantasma della traduzione perfetta, grazie alla costante frequentazione con la poesia inglese (Meneghello insegnava a Reading), qualche anno fa l’autore dei Piccoli maestri decise di togliersi uno sfizio e, tra il serio e il faceto, tradurre in quella che considerava la madrelingua alcuni classici della poesia inglese e americana, riunendoli in volume.

Non di vere e proprie traduzioni si tratta, bensì di Trapianti (uscito per Rizzoli nel 2002), ovvero di ripensamenti, tentativi, approssimazioni. E soprattutto tradimenti. Perché grazie alla scusa del divertissement, Meneghello si prendeva libertà che rendevano, molto più di alcune vecchie e legnose traduzioni, il ritmo tronco e le potenzialità degli originali. Lo diceva già Dario Fo ai suoi allievi: il modo migliore per sciogliere un attore che s’incaglia su una battuta è fargliela pronunciare in dialetto. Tradire il testo, per poi recuperarlo più fresco di prima. Ed ecco come l’intransigenza irlandese ci arrivi grazie al vernacolo prosaico. “Out of Ireland have we come. / Great hatred, little room, / Maimed us at the start. / I carry from my mother’s womb / A fanatic heart.” Pronti, via: “Sen vegnisti de l’Irlanda, / poca tera rabia granda, / semo sta ciavà in partensa. / Cuel ca me porto drio / da ’l sen do’ ca son nato / zé un core fanatico.”

Era Yeats, con il quale il giochetto viene bene. Ancora meglio con e.e. cummings, citato all’inizio con i suoi “putei spiritei” (“little ghostthings”). Qualche difficoltà affiora con la poesia di Gerald Manley Hopkins e con Shakespeare, che perde in tragicità ma guadagna in ironia. Certo vedere tradotto il celebre “Frailty, thy name is woman!” con un “Chi dise dona dise frìtola” dà una bella rinfrescata a certi versi fossilizzati del Bardo (e senza dover per forza ricorrere a trovate sceniche come la masturbazione di Amleto o un garage di Detroit al posto della corte danese).

Analogo discorso è possibile fare per un libretto di Limericks pubblicato nel 2002 da Einaudi, dove Ottavio Fatica, grazie a equilibrismi linguistici che gli hanno meritato il premio Mondello per la traduzione, restituisce intatti i nonsense di Edward Lear, tenendo ben presente la lezione di Toti Scialoja. Un solo esempio, strepitoso: “There was an Old Man on whose nose, / Most birds of the air could repose; / But they all flew away / At the closing of day, / Which relieved that Old Man and his nose.” Ancora più ricco: “C’era un tale, con tanto di naso, / Per gli uccelli era un vero Parnaso; / Ma all’occaso il rincaso / Scioglieva l’intaso, / Con sollievo del tale col naso”.

Forse per tornare a leggere poesia, strapparla al luogo comune che la vuole ostica o all’opposto lirica fino alla stucchevolezza, sarebbe opportuno ripartire da qui, dal gioco ecolalico delle rime e dei rimandi. Anche ricorrendo al dialetto, forse impopolare quanto endecasillabi e settenari. Ma chi l’ha detto che una filastrocca non può costituire uno degli esempi più ricercati di poesia del ventesimo secolo?

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