Chiamami nemesi

 

 

 

 

 

 

Foto in bianco e nero: un pischello in maglia a righe e jeans ruvidi, guantone alla mano sinistra e sguardo puntato verso l’improvvisato battitore all’altro capo del marciapiede, lancia una pallina da baseball al di là dell’obiettivo, verso il titolo in cima alla pagina. Eccola lì la piccola sfera, sospesa nel bianco munariano, come un minuscolo e allarmante sole nero in mezzo al cielo, condensare in un’unica immagine tutta la paura che attanaglia la piccola comunità di Newark, provincia immaginativa di uno dei più prolifici e osannati autori contemporanei, l’implacabile Philip “Rotativa” Roth. È la splendida copertina del suo trentunesimo romanzo, Nemesi (traduzione di Norman Gobetti, Einaudi, pp. 183, € 19,00), ennesima fatica di un’inarrestabile e quasi spaventosa tarda fioritura che ha visto sbocciare alcuni capolavori della letteratura mondiale e, grazie al cielo, qualche caduta di tono salutata con esultanza da chi non regge più tanta estenuata perfezione.

E invece rieccolo in forma, puntuale come un Goldoni d’oltreoceano, ad articolare l’ulteriore tassello di una commedia umana, troppo umana: siamo alle prese con una vicenda semplice, un apologo elementare, a volte quasi seccante quanto a linearità, tratteggiato con uno stile tanto limpido da apparire trasparente. Questo candore seduttivo che avvolge il lettore senza lasciargli mai capire da dove provenga il miracoloso impasto di voce e trama sgorga per l’ennesima volta dalle labbra di un testimone elusivo, vera e propria ossessione narratologica di questo romanziere, sempre metà presenza e metà fantasma, metà vita e metà controvita, che scelga come alter ego Kepesh o Zuckerman o “Roth” (ad esempio in Operazione Shylock).

A prendere la parola è Arnie Meskinoff – narratore invisibile (fatto salvo un accenno a pagina 71) fino all’epilogo – che snocciola la triste parabola del giovane Eugene “Bucky” Cantor, insegnante di ginnastica prestante e integerrimo a cui tocca in sorte di venire riformato per un problema alla vista e assistere da lontano al conflitto in corso in Europa e nel Pacifico (siamo nell’estate del ’44) più o meno come unico uomo in città, anzi mezzo uomo, ometto, omuncolo divorato dai sensi di colpa nei confronti degli amici al fronte nonostante sia, paradossalmente, un atleta nato. Peggio: quando l’orfano di guerra si trova in mezzo a un’epidemia di polio che comincia a decimare i ragazzini del luogo e a diffondere il terrore nelle buone e brave famigliole ebree della zona – placido sobborgo popolato da padri operosi dentro casette a schiera, marciapiedi curati, tendine linde, portici immacolati (“Esiste una casa più pulita di questa?” si chiede il padre di una vittima, in una perfetta epitome del bianco abbagliante e minaccioso dell’America puritana) – in quella che non esita a classificare come “una guerra contro i bambini di Newark”, non solo cede con propria meraviglia alla paura, dandosela a gambe levate in collina nel campeggio giovanile dove lo invita la promessa sposa, ma scopre con raccapriccio di essersi trascinato dietro la malattia e di avere contagiato alcuni imberbi campeggiatori.

Così non l'”uomo con una cappa nera, e il cappello sugli occhi” di manzoniana memoria, ma un giovanotto prestante e caritatevole personifica la minaccia in questa storia della colonia infame. Come ha potuto l’ometto dedito alla cura dei ragazzini, il catcher in the rye della filastrocca salingeriana, il seguace maniacale dei valori di prestanza, responsabilità, determinazione, competenza, equanimità non solo lasciarsi contagiare dal terrore ma addirittura farsene incarnazione, diffusore, untore? E com’è possibile che Dio (la cui grafia nella storia, con strategia ambigua, oscilla tra iniziale maiuscola e minuscola) abbia permesso questo sfacelo: la catastrofe bellica, la morte di tante vite innocenti e, first but not least, quella della giovane madre che morendo ha dato i natali a questo robot del dovere con le orecchie deformi, ma capace di splendidi lanci al giavellotto?

Certo, non è facile scaraventare sulle spalle di un personaggio tanto stolido una riflessione sulla teodicea che attraversa Dostoevskij, il concetto di capro espiatorio, le perenni tentazioni antisemite (ma anche paranoiche) della società e la tragedia del conflitto mondiale. Eppure, anche nei momenti in cui la scrittura di Roth vacilla e rischia di esporsi al ridicolo, ecco che miracolosamente trova appiglio in una scena memorabile, su tutte quella conturbante della madre di Bucky che da giovane si immerge in una tinozza piena d’acqua dove sguazzano le carpe e quella della farfallina iridescente che si posa sulla spalla di Bucky come un presagio.

Non è solo questo, tuttavia, a rendere credibile il libro. Perché a guardare bene Arnie Meskinoff non è l’unico narratore. Oltre all’ombra lunga di chi ha sapientemente disposto le parole sulla pagina, avvertiamo un’eco di quella stessa vocazione anche nel nostro antieroe: Cantor è palesemente doppio e riflesso del narratore (non è un caso che, pur contraendo la malattia, Meskinoff sia riuscito a vincere l’handicap e a farsi una famiglia, rappresentando la vita e la via parallela che il nostro non è riuscito a imboccare). Qual è il senso?, si ostina a balbettare lo storpio del quartiere, preso in ostaggio dalla memoria, nel tentativo di trovare il bandolo di una matassa tragica. Il mio regno per un significato. “L’inevitabile preludio a non capire”, chioserebbe maligno Mickey Sabbath. Da questo punto di vista Eugene “Bucky” Cantor non è solo onomasticamente il “cantore” della vicenda (così come il minorato Horace ne è il “chiaroveggente”, segno premonitore forse addirittura troppo esplicito), ma è un vero e proprio rapsodo che tiene insieme il racconto e allo stesso tempo lo alimenta, diffondendo il male e contagiando chi incontra. “Doveva trasformare la tragedia in colpa. Doveva trovare una necessità a quanto accaduto”. Proprio come direbbe qualsiasi scrittore che si rispetti: chiamami nemesi.

(Questo articolo è uscito per il quotidiano “Liberazione” del 20 febbraio 2011.)

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