Adagiato sul divano, Alberto Arbasino ci sogguarda imbronciato dalla copertina di Ritratti italiani (Adelphi, pp. 552, € 28), vagamente indispettito forse di dovere interrompere la lettura del libro che ha in mano. Proprio da un momento simile, tra l’arte del testo e il piacere dell’incontro, su altri divani ma anche nelle redazioni, a tavola in trattoria, in decappottabile e sopra qualche prato, si dipana l’ulteriore raccolta di quell’inesausto romanzo-conversazione che l’autore di Fratelli d’Italiava scrivendo da una vita.
Rivendicatore con spensieratezza di una sessualità svincolata dal senso di colpa, lontano dalle macerazioni dei pur amati Pasolini&Testori (anziché l’indignazione, il riso: glielo dice proprio PPP), capace di narrazioni atipiche nella stagione neorealista, poi romanzi d’avanguardia (il capolavoro Super-Eliogabalo), quindi analisi civili e libri di viaggio e moltissimo altro, Arbasino è il prototipo del Grande Non Isolato che non ha paura di calarsi non solo nella realtà ma anche nel bel mondo, per sporcarsi le mani con la televisione (“Match”) e addirittura con la poesia (Rap!, ma prima ancora i couplets per Laura Betti), tralasciando chissà quale purezza da smarrire (e quanta spocchia, invece, in chi non mette mai il naso fuori dalla capanna d’avorio).
Con questo libro raccoglie nuovi e antichi incontri, sempre con taglio critico e mai solo giornalistico, con quello stile agile, freschissimo, che ha preso il barocco di Gadda per sposarlo alla languidezza di Proust (o a quella “cognizione del buonumore” che individua qui in Roberto Longhi o a quella “voluttà di una sovrana squisita leggerezza” che vede qui in Mario Bortolotto o a quella “estrema eleganza di rapporti tra la Letteratura e la Vita” che traccia qui in Palazzeschi: de Arba fabula narratur).
Di qui passa quasi tutto il Novecento italiano, con qualche puntata nell’Ottocento, in una carrellata di uomini e donne rappresentativi, che si ricollega a una sua vena per nulla minore, a partire dalle interviste pubblicate sul “Mondo” (Parigi o carae Lettere da Londra, in cui andava a stanare tutti i grandi nomi della letteratura europea, da T.S. Eliot a Barthes, da Simenon a E.M. Forster, fino alla sortita a Meudon nel malo ritiro di Céline, poco prima della morte), arrivando al recente America amoree passando per Certi romanzi, capace di formare una vera e propria opera aperta di apparenti “fragments” per raccontare il mondo artistico ma non solo. E senza mai ubbie: la carne è allegra e ho letto tutti i libri.
Sfilano Italo Calvino, Giosetta Fioroni, Goffredo Parise, Sophia Loren, Gianni Morandi (“una bocca da gattino, con la sua linguina rosa e i suoi bei dentini tutti uguali, tutti ridenti”). C’è molta aneddotica, certo: l’ultimo incontro casuale con un arruffato e triste Fellini; Elsa Morante in epoca Dolce Vita che si presenta sdegnata da qualche notizia (“la bomba atomica oppure una uccisione di gatti”); Giovanni Comisso che arriva dopo essere stato “su e giù per le scalinate di Piazza di Spagna, sotto le azalee primaverili dove tutte le api andavano su un giardiniere biondo evidentemente più dolce dei fiori”.
Ma non solo.
In quella millefoglie che è da sempre il testo arbasiniano, si gustano stroncature generose, consuete scorribande museali e musicali, lazzi, enumerazioni, poesia, divagazioni, analisi critiche (mai accademiche ma sul campo), dove Arbasino insegna che per scrivere non serve la posa da parruccone ma il colpo d’occhio, l’impressione, l’intuizione talentuosa. E così, ascoltando a distanza di tempo l’esecuzione di un Ravel da parte di Benedetti Michelangeli, rivive una folgorazione di Colette secondo la quale due antichi amanti non concorderanno mai in ogni dettaglio sull’idillio lontano; dal vetro della bottega, intravede Piero Fornasetti che ricambia il saluto, “come un trompe-l’oeil di se stesso”; psicanalizza il cinema impegnato via Bertolucci (“E questa gran contraddizione: voler fare del cinema politico, ma per nessuno”); ricollega 8 e ½alla grande tradizione romanzesca del ’900; e origlia, pungola, stimola, only connectingnon solo le opere, ma anche le persone (incontra l’ultima amante di Majakovskij e chiama Angelo Maria Ripellino, che la cercava da una vita: “Il giorno dopo si videro al Grand Hotel”).
Niente entomologia. Anzi. Un regesto mobile di volti e motti, passioni e storie, lontano dall’ingessatura del profilo scolastico, ma con l’incanto invece dell’“archivio orale” e della chiacchierata fino a tarda notte, pur sempre colta e dotta, ma libera, aperta: un affastellarsi di associazioni inusitate, temerari accostamenti, improvvisi e illuminazioni che dosano virgole e virgolette, incisi e parentesi, come gli strumenti di un’orchestra, secondo il grave o l’adagio o l’allegretto, dove a condurre è sempre l’estro: se la prosa di Comisso, come ricordava Flaiano, era scritta “su seta”, quella di Arbasino lo è su carta da musica, una “petite musique” soave e divertita, partitura compiuta per macchina da scrivere.
(Questo articolo è uscito qualche anno fa su Pagina99.)
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