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Racconti da ridere

Ho curato per Einaudi un’antologia di racconti umoristici. Si intitola Racconti da ridere e, oltre a una mia introduzione, ci sono  racconti di P.G. Wodehouse, Achille Campanile, Dorothy Parker, Alan Bennett, James Thurber, Stefano Benni, Irvine Welsh, David Sedaris, Nora Ephron, Martin Amis, Tiziano Scarpa, Charles Bukowski, Umberto Eco, Margaret Atwood (inedito), Mark Twain, Michele Mari, Slawomir Mrozek, Anton Čechov, Nikolaj Gogol’, Jørn Riel, Joe R. Lansdale, Donald Barthelme, Heinrich Böll.

Qui la pagina sul sito dell’editore.

Qui un estratto dell’introduzione uscito per il magazine del Sole 24 Ore.

Qui un’intervista su Letteratitudine.

Have fun.

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Umorismo involontario

unknownSu cosa sia l’umorismo si arrovellano da secoli e ancora non sono arrivati a una risposta. Reazione al dolore? Aggressività verso il mondo? Antidoto al fanatismo? Cinismo, crudeltà? O al contrario: empatia, amore? È intelligenza? È una cosa stupida (il riso abbonda sulla bocca degli umoristi)? È lecito, è sbagliato (pensiamo al dibattito di questi mesi su Charlie Hebdo)? È sano, è malato? L’umorismo è umorale, immorale, amorale? Facci ridere, c’è ben poco da ridere, tu ridi. Forse è tutte queste cose, ma poi è tanto doveroso fornire una definizione? Analizzare l’umorismo è un passatempo per persone prive di umorismo, pare abbia detto Robert Benchley (non so chi sia, ma suona bene). Non solo: è mai possibile classificare qualcosa di così elusivo, dipendente dal carattere personale e nazionale, dalla lingua e dal contesto, dal periodo storico e da quello individuale, dai costumi e dalle epoche, dalle latitudini e dalle abitudini? Un uomo scivola su una buccia di banana e nessuno ride o forse tutti o forse solo qualcuno. Sono riusciti a definire Dio, scriveva Umberto Eco, ma questo ancora non si può spiegare. Che ridere.

(Continua a leggere su Pixarthinking.)

 

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Sui ringraziamenti – Rivista Studio

timthumb.phpC’era una volta il paratesto, ossia ciò che il critico strutturalista Gérard Genette chiamava le «soglie», tutto ciò che sta intorno al contenuto del libro e che accompagna il lettore all’interno delle pagine: copertina, risvolto, dedica, prefazione e via dicendo. Un tempo si trattava di una faccenda innocente, perfino seria: quando un autore classico dedicava il volume a un certo personaggio, estingueva un debito per nulla metaforico. Con il passare degli anni, è diventato il terreno dove esercitare ulteriormente la propria strabordante creatività. Scrittori non solo televisivi che finiscono con il loro faccione in copertina; quarte pseudo-umoristiche; dediche autoreferenziali (tipo quella dell’ultimo romanzo di Isabella Santacroce: sì, «a Isabella Santacroce»); epigrafi con la mail e il numero di telefono da rimorchio accanto a una frase apocalittica di Thomas Bernhard. Gli esempi non si contano. Conosco una persona che in esergo al proprio esordio ha chiesto la mano alla ragazza: nessuno nutriva dubbi sulla buonafede del gesto, ma certo la sfrontatezza non metteva la fanciulla nella disposizione più serena per decidere se accettare o no (alle pubblicazioni, per di più). In tutto questo c’è una zona dove forse l’estro ha trovato terreno ancora più fertile ed è quella, in fondo al libro, dove allignano i famigerati omaggi ad amici e non solo.

“Gratulatoria”, “Nota”, “Explicit” o un più modesto “Ringraziamenti”: in coda, che sia miele o veleno, arriva quasi sempre un corposo elenco di persone (o animali, come vedremo) da ringraziare o gratificare o ingraziarsi. Un cahier di benedolenze che sta diventando un genere a sé stante, tanto che gli scrittori Carolina Cutolo e Sergio Garufi hanno pensato bene di raccoglierne una scelta in Lui sa perché. Fenomenologia dei ringraziamenti letterari (con una prefazione di Stefano Bartezzaghi e un contributo di Umberto Eco, Isbn, 208 pp., 14 €), che abbraccia la narrativa italiana degli ultimi vent’anni. Da un campione tutto sommato esiguo, emerge uno spaccato eloquente di un angolo preposto alla gratitudine e degenerato in un catalogo di vanità e nonsense involontariamente comici, da cui non si salva nessuno – nemmeno gli autori, che in fondo al testo non potevano non ripercorrere ogni tipologia del catalogo, anche per farsi perdonare di avere ridicolizzato mezza editoria italiana.

(Continua a leggere su Rivista Studio.)

(Qui la puntata di Pagina 3, su Radio3Rai, in cui è stato letto il pezzo.)

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Scrivila come ti pare – IL

good-writing-tips«Non generalizzare mai». Era uno dei 36 consigli di scrittura – paradossali, ovviamente – che Umberto Eco tracciava in una bustina di Minerva e che ora, altrettanto ovviamente, in Rete vengono presi sul serio (si parla di “sferzate” agli autori). Se le scuole di scrittura creativa in questi anni si sono moltiplicate, il web non può non riflettere questa sete di formule magiche e trabocca di suggerimenti su come scrivere quella maledetta idea che abbiamo in testa. No, aspetta: non l’idea, la trama. Ma quale trama! Il plot è borghese! Insomma, su come accedere se non all’editoria, perlomeno al Nobel.

(Continua sul sito del Sole24Ore.)

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