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Letteratura metropolitana – Rivista Studio

m_metronovela_naming_270x413Stai per cominciare a leggere il nuovo libro di Stefano Bartezzaghi. Parla della metropolitana. E di Milano. Non era difficile arrivarci (ma il tragitto non è mai lineare come sembra): si capiva dalla M del titolo, dalla copertina illustrata con una striscia superiore, grigia e piovosa, dove si distingue il profilo del cosiddetto cavall stracch di piazza Missori, e una inferiore, rossa e colorata, con un campionario di tipi umani in attesa del treno sulla banchina della linea 1. Come nella più banale delle trovate metanarrative, stai perfino scendendo i gradini della rossa, fermata Lima, con il libro infilato nella sacca a tracolla, perché – ulteriore cornice alla cornice – stai correndo al rinfresco dato dalla rivista che ospiterà la tua recensione. Potresti leggerlo ad alta voce di vagone in vagone, come in quei magnifici inseguimenti istericamente flemmatici sull’underground di New York. Oppure spargerne le pagine in giro, lasciare che il libro si legga da solo e che tu scorga tutto attraverso le vetrate ingiallite, come in quel vecchio mugugno-canzone di Tom Waits, 9th and Hennepin, dove lui racconta la vita privata e pubblica di una città, per poi liquidare tutta la faccenda con un colpo di scena finale: «And I’ve seen it all… And I’ve seen it all / Through the yellow windows of the evening train…».

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Sui ringraziamenti – Rivista Studio

timthumb.phpC’era una volta il paratesto, ossia ciò che il critico strutturalista Gérard Genette chiamava le «soglie», tutto ciò che sta intorno al contenuto del libro e che accompagna il lettore all’interno delle pagine: copertina, risvolto, dedica, prefazione e via dicendo. Un tempo si trattava di una faccenda innocente, perfino seria: quando un autore classico dedicava il volume a un certo personaggio, estingueva un debito per nulla metaforico. Con il passare degli anni, è diventato il terreno dove esercitare ulteriormente la propria strabordante creatività. Scrittori non solo televisivi che finiscono con il loro faccione in copertina; quarte pseudo-umoristiche; dediche autoreferenziali (tipo quella dell’ultimo romanzo di Isabella Santacroce: sì, «a Isabella Santacroce»); epigrafi con la mail e il numero di telefono da rimorchio accanto a una frase apocalittica di Thomas Bernhard. Gli esempi non si contano. Conosco una persona che in esergo al proprio esordio ha chiesto la mano alla ragazza: nessuno nutriva dubbi sulla buonafede del gesto, ma certo la sfrontatezza non metteva la fanciulla nella disposizione più serena per decidere se accettare o no (alle pubblicazioni, per di più). In tutto questo c’è una zona dove forse l’estro ha trovato terreno ancora più fertile ed è quella, in fondo al libro, dove allignano i famigerati omaggi ad amici e non solo.

“Gratulatoria”, “Nota”, “Explicit” o un più modesto “Ringraziamenti”: in coda, che sia miele o veleno, arriva quasi sempre un corposo elenco di persone (o animali, come vedremo) da ringraziare o gratificare o ingraziarsi. Un cahier di benedolenze che sta diventando un genere a sé stante, tanto che gli scrittori Carolina Cutolo e Sergio Garufi hanno pensato bene di raccoglierne una scelta in Lui sa perché. Fenomenologia dei ringraziamenti letterari (con una prefazione di Stefano Bartezzaghi e un contributo di Umberto Eco, Isbn, 208 pp., 14 €), che abbraccia la narrativa italiana degli ultimi vent’anni. Da un campione tutto sommato esiguo, emerge uno spaccato eloquente di un angolo preposto alla gratitudine e degenerato in un catalogo di vanità e nonsense involontariamente comici, da cui non si salva nessuno – nemmeno gli autori, che in fondo al testo non potevano non ripercorrere ogni tipologia del catalogo, anche per farsi perdonare di avere ridicolizzato mezza editoria italiana.

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(Qui la puntata di Pagina 3, su Radio3Rai, in cui è stato letto il pezzo.)

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