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New York Stories – IL

Times_Square_illumination_1921-1031x576(Ho scritto una breve recensione di New York Stories per il magazine del Sole 24 Ore.)

È un mito: la città, le stanze e le finestre, le strade che sputano vapore; per ognuno, per tutti, un mito diverso, testa d’idolo dagli occhi di semaforo che ammiccano verde tenero, rosso cinico.

Questa isola che galleggia su acqua di fiume come un iceberg di brillanti, chiamatela New York, chiamatela come vi pare; il nome non ha importanza poiché, venendo dalla più greve realtà dell’altrove, si è solo in cerca di un luogo dove nascondersi, dove fare un sogno in cui si abbia la prova che forse, dopo tutto, non si è un brutto anatroccolo, ma si è meravigliosi, degni di amore.

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La donna che sparì in un telefono

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Che cosa c’è di tanto speciale lì dentro.

Solo dopo quella frase decise di fare sul serio.

Prima sapeva solo di averlo sempre con sé. Passeggiava fissando il display, soffriva durante la doccia quando non poteva tenerlo con sé, controllava gli account tra le venti-trenta volte prima di andare a dormire. Spesso si svegliava dopo mezz’ora di sonno: giusto per verificare le notifiche, lo stato di salute online, la vita.

Come tutti.

Niente di che.

La sua mente era sempre accesa. Spesso all’alba si svegliava come… come… L’unica immagine che le veniva in mente era quella con il suo telefono non appena lo metteva in carica e faceva quel confortante ronzio. Si svegliava come se una lenta scossa l’avesse appena attraversata.

L’elettricità era dolcissima.

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Dio e le carote


Copertina Unico scrittore(Un annetto fa ho pubblicato il libro qui accanto. Qui c’è la pagina ufficiale sul sito delle edizioni e/o e qui la rassegna stampa. Festeggio l’anniversario, che è un po’ anche un funerale, pubblicandone l’inizio, un’ipotetica risposta al più imperioso dei “Perché scrivi?”.)

Davanti a Dio, nel giorno del giudizio, avevo mentito.

Chissà perché, nel momento supremo, mi erano tornate in mente le carote. Mi spiego. Quand’ero piccolo mangiavo a scuola. In mensa c’era una tizia pingue e maleodorante, soprannominata la Lurida. Più che prepararci da mangiare, ci preparava e basta. Al militare, al futuro, al male. Per la Lurida noi stavamo al cibo come la giumenta sta alla sferza. Riuscivamo a ingollare tutto quello che cucinava, ma al momento delle carote lo stomaco capitolava e si rifiutava di buttare giù quelle radici insapori.

Ognuno cercava di scamparla a modo suo. C’era chi le ficcava in bocca, accompagnandole da una caraffa d’acqua (metodo Cisterna), chi le masticava per ore fino ad anestetizzare la mascella (metodo Spasmo), chi corrompeva il vicino con le figurine e gliele rifilava (metodo Premier).

Angelino aveva trovato un modo sicuro: si guardava intorno con aria circospetta, afferrava l’ignobile pastone e se lo infilava nella tasca del grembiule. Andando a casa, si liberava del corpo del reato in una discarica, dove veniva ignorato anche dalle pantegane più disperate. Era l’uovo di Colombo, eppure per chissà quale motivo nessuno si sentiva di emularlo.

Una sola volta gli era andata male. Un giorno, avvertito da qualche delatore, il preside si era presentato all’uscita della mensa. Si chiamava – lo giuro – Livorio Smricchio e aveva un carattere spigoloso quanto il nome. Irreggimentati in fila per due, eravamo transitati davanti all’arcigno Livorio. Io, di fianco ad Angelino. Al nostro passaggio Livorio aveva abbrancato Angelino e gli aveva intimato di vuotare le tasche. Al povero Angelino, non era restato che porgere le mani a coppa. Lì, come una grattugia di ostie rossastre stava l’orribile radice fosforescente.

“Perché l’hai fatto?” aveva tuonato Livorio.

Incassata la risposta, che io solo ero riuscito a sentire, l’enorme mano irsuta di Smricchio era calata sulla faccia glabra di Angelino, spalmandolo per terra.

Ma come mai, nel momento supremo, quando Dio mi aveva chiesto perché avevo scritto romanzi, avevo pensato alle carote? Non potevo guadagnarmi il paradiso dicendo la pura e semplice verità? In fondo, aveva sempre a che fare con Angelino.

Sì, lo so, forse avrei dovuto dire a Dio che tanti anni dopo avevo incontrato di nuovo Angelino in un parco. Mi era arrivata la voce che non gli fosse andata bene. Il ragazzino che nascondeva le carote nel grembiule era diventato uno dei tanti svitati che vagano per i luoghi pubblici. Insomma, Angelino era finito sulla strada. Era sporco, lacero. L’occhio vitreo, il passo strascicato, le unghie nere. Uno di quei mattocchi che hanno sempre un ritornello, una frase ossessiva, un disco rotto da balbettare ai passanti. Ogni matto ha un grido di battaglia, un nonsense necessario: la cifra distintiva di un’individualità spezzata ma sempre unica. Dieci parole che condensano tutte quelle di una vita ormai perduta. L’haiku dei dementi, l’aforisma stolto che per gli altri non ha significato.

Lui girava per il parco chiedendo a tutti se pagavano l’ambo sulla ruota di Lugano: era quella la sua fissa. Di solito la gente rideva, qualcuno gli dava uno spiccio, altri si allontanavano.

Non mi riconoscerà, avevo pensato. Mi chiederà solo dell’ambo sulla ruota di Lugano. Invece, si era piantato davanti a me e aveva detto: “Amico mio, sono disperato”. Ed era corso via. Ecco, nel momento supremo, avrei voluto dire a Dio che da quel momento avevo scritto solo per comunicare agli altri un’eco di quella voce rotta, un riverbero della sua pena:

“Sono disperato.”

Siamo tutti disperati, Angelino, e tutti quanti ce ne vergogniamo. Invece davanti a Dio in persona, che aveva tuonato “Perché hai scritto?”, mi era tornata in mente la risposta dell’Angelino bambino davanti a Livorio, con le carote in mano, ancora innocente, ancora ribelle, ancora combattivo. Avevo dato la stessa risposta gratuita che solo io avevo sentito.

“Perché l’hai fatto? Perché scrivi?”

“Per dispetto.”

E avevo aspettato lo schiaffone di Dio.

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Roland/2

Gli amici di Torno giovedì mi hanno chiesto di pubblicare il racconto che ho scritto per la serata a Roland. Comincia così:

Eccomi lì, ubriaco al bancone di un bar: intorno, solo un barista scialbo e un locale che anche lo sgabello avrebbe paragonato a quel quadro di Edward Hopper. Certo, a parte il fatto che non c’era la maliarda vestita di rosso, che non era un diner, che non si chiamava Phillies e che non eravamo in una città americana, non eravamo poi tanto distanti. Baricco avrebbe detto che era come stare in un quadro di Edward Hopper senza stare in un quadro di Edward Hopper. Beato lui, che un po’ di libri li vendeva. Io ero a un punto morto. E tutto per un eccesso di zelo. “Pensa a Hemingway” mi avevano detto al corso di scrittura. “Scrivi solo di ciò che conosci.”

(Continua a leggere su Torno giovedì.)

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