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Martin Amis e il male – IL

Martin-Amis-Zone-of-InterestIn un racconto di J. M. Coetzee l’ineffabile alter ego dell’autore, la scrittrice Elizabeth Costello, viene chiamata a dire la sua sul “problema del male” e, davanti a un collega che ha raccontato i campi di concentramento con eccessiva disinvoltura, si domanda se non sia pericoloso «scendere nei più oscuri territori dell’anima», se dire l’indicibile non sia soltanto un peccato di hybris ma anche di vanità, da cui non si esce indenni. «Osceni: non solo gli atti dei carnefici di Hitler, non solo gli atti del boia, ma anche le pagine del libro (…). Scene che non possono reggere la luce del sole, dalle quali bisognerebbe difendere gli occhi delle fanciulle e dei bambini».

È un tema che riecheggia quello più ampio scaturito dalle pagine di Se questo è un uomo. Primo Levi, assetato, allunga una mano fuori dalla baracca per staccare un ghiacciolo e una guardia glielo strappa di mano. «Perché?», gli chiede. «Qui non c’è un perché», risponde quello. Se il discorso intorno al Male nazista (o al “mistero Hitler”, com’è stato intitolato in Italia un magnifico studio di Ron Rosenbaum sull’intera questione) resta un quesito irrisolvibile per chi è sopravvissuto ai campi, maggiori dubbi suscita negli scrittori che vi si avventurano soltanto grazie allo studio e all’immaginazione. Non a caso Vercors divise il suo racconto Le armi della notte, che racconta di un superstite dei campi di concentramento, in due parti denominate “Orfeo” e “Euridice”: è dato girarsi e raccontare l’inferno? Non soltanto: è morale scegliere di inoltrarsi “in quelle tenebre”, per citare il titolo di un celebre libro di Gitta Sereny sul comandante di Treblinka? E come va fatto?

(Continua a leggere sul sito del Sole24Ore.)

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Un pugno di uomini sfocati

foto2g-1024(Qualche tempo fa ho pubblicato sul Primo amore questa recensione, che oggi in rete non si trova più. Ho pensato di riproporla, non tanto per l’anniversario incombente della Grande Guerra, quanto per la qualità del libro.)

Ci sono libri che si affacciano senza clamore, se ne stanno lì acquattati in un angolo della libreria ed escono di scena senza avere sollevato polemiche, senza pretese generazionali e senza visioni del mondo (anche se, in fondo in fondo, un libro – per quanto modesto – una visione del mondo ce l’ha in ogni caso). Il loro grande difetto, che è naturalmente un pregio, è l’apparente semplicità, la dimessa esplorazione di un tema poco all’ordine del giorno, la meticolosa analisi di una vicenda passata. Erano mesi che I fogli del capitano Michel di Claudio Rigon (Einaudi 2009, pp. 199) esercitava, proprio per questa sua renitenza, una forte attrazione su di me. E l’attesa non è andata delusa.

“Io di professione faccio l’insegnante, di fisica, alle scuole superiori. È il mio mestiere. Oltre a questo faccio fotografie.” Nell’incipit c’è già tutta l’acribia di questo esploratore curioso, classe ’48, nato a Vicenza, che si aggira nel corso degli anni sull’Altipiano di Asiago, per calcare le orme di chi vi si è stato catapultato nella grande guerra, rinvenirne le tracce e conservarne la memoria. Un giorno, mentre svolge una ricerca bibliografica al Museo del Risorgimento, scopre dapprima una serie di piccole fotografie appartenenti alla “Donazione Michel” e quindi un fascio di documenti, tra i quali duecentocinquantasette fonogrammi, piccoli dispacci sul fronte tra un comando e l’altro, risalenti all’estate del 1916.

Da lì, un po’ detective e un po’ storico, Rigon inizia a riannodare i fili della vicenda del battaglione Argentera sull’Ortigara, ordinando cronologicamente i fonogrammi – vere e proprie tessere di un puzzle – e ricostruendo con l’operosità di una staffetta attraverso frequenti le sue escursioni in loco il contesto topografico e quello bibliografico (da Gadda a Lussu, fino alle pubblicazioni di nicchia) dal quale sono usciti. È così che restituisce questi laconici messaggi in bottiglia alla loro vicenda prima storica e poi umana. I nomi dei soldati, il dramma del gelo e della paura, le reazioni coraggiose e meschine, i piccoli furti e le diserzioni: tutto emerge dalla nebbia del passato gradualmente, senza enfasi, con una misura toccante.

Se il poeta poteva trasfigurare liricamente il conflitto (Clemente Rebora, per pescarne uno fra i tanti: “… Tra melma e sangue / Tronco senza gambe / E il tuo lamento ancora, / Pietà di noi rimasti / A rantolarci e non ha fine l’ora…”), il memorialista oppone una prosa asciutta, ma non per questo meno efficace. Anzi. Provare a tornare in quelle trincee con lo sguardo del superstite sarebbe un imperdonabile errore retorico (che pure in molti commettono, nella foga di colmare la distanza che li separa dall’orrore), così quando Rigon capisce il retroscena di un foglietto ambiguo (“I soldati Giacosa, Graneris e uno ‘sconosciuto dell’ottavo’ sono morti e dell’ultimo non si conoscono le generalità essendo tuttora il cadavere in luoghi battuti”) lo commenta in un paragrafo secco: “Lo ‘sconosciuto dell’ottavo’ non è un soldato di un altro reparto, come avevo sempre creduto, ma uno dei nuovi arrivati (…). Quelle tre parole – chiuse fra delle virgolette che sorprendono in un bigliettino di trincea – mostrano quanto fosse sentito invece ancora come un estraneo. Riescono a dire, di quella morte, e più di qualsiasi altra frase o pensiero, la totale, assoluta, desolata solitudine”.

Ma sarebbero tanti i passi da citare, in questo libriccino prezioso e antico che, interrogando la storia e la memoria con rispetto, racconta un pugno di uomini sfocati, molto umani e poco epici. Credo che I fogli del capitano Michel sarebbe piaciuto a Mario Rigoni Stern e a Primo Levi, e forse non si può trovare complimento migliore di questo.

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L’adorazione

È uscito il nono numero del giornale di sconfinamento “Il Primo Amore”.

Ci sono saggi di Andrea Amerio su Primo Levi, di Teo Lorini su Alan Moore, di Andrea Tarabbia su Andrej Platonov, di Sergio Baratto su Boris Grebenscikov, le “17 preghierine per una nuova vita” di Antonio Moresco (con i dipinti di Giuliano Della Casa), una serie di straordinarie fotografie risorgimentali e molto, molto altro.

Io partecipo con un saggio in forma di lettera a Giovanni Testori e una poesia, che si può leggere anche qui.

Qui una pagina di presentazione sul sito.

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