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Da che parte ci tirano le ombre (su Giovanni Raboni) – Rivista Studio

1461-pagIl 16 settembre 2004, dopo un’agonia di qualche mese, moriva Giovanni Raboni.
Come in un brutto film agiografico, era stato colpito da infarto proprio alla macchina da scrivere, proprio mentre buttava giù il coccodrillo dell’amico Cesare Garboli. «Scriveva, proprio scriveva, ed ha piegato il capo, si è chinato, un inchino straziante, interminabile, che era anche una lotta, una lotta per la vita e contro la morte» scriveva il giorno successivo un patetico (nel senso di patetico) Franco Cordelli sul Corriere della Sera. Ricordo la telefonata di un amico per lamentarsi di una sua ipotetica conversione in articulo mortis, che a me risultava irrilevante. Gli avevo fatto notare che il dialogo con il sacro andava avanti in Raboni da sempre (considerato che già il suo primissimo componimento dava voce a San Giovanni Battista), tanto che lui si definiva un «non-ateo», ma niente: l’invettiva era partita e me l’ero sorbita fino alla fine. Tutti impavidi con la morte degli altri.

È morto un poeta, pensai invece io, citando con automatismo pavloviano, l’orazione funebre estemporanea e disperata di Alberto Moravia ai funerali di Pier Paolo Pasolini, un monito rivolto alla ferocia bigotta della società che scaturiva però dal nucleo bruciante di una fraterna amicizia: «Abbiamo perso prima di tutto un poeta e di poeti non ce ne sono tanti nel mondo, ne nascono tre o quattro soltanto dentro un secolo! (…) Il poeta dovrebbe essere sacro!». Era il poeta-vate, il poeta che indica la via. Anzi, il Poeta con l’iniziale maiuscola (ribadita, per certi versi, in quel triplice, ossessivo PPP). E invece proprio quel giorno di novembre del ’75, Pasolini, che Raboni aveva definito appunto poeta «nel cinema come nel teatro, nella pubblicistica come nel romanzo – in tutto, sarei tentato di aggiungere, assumendomi la non lieve responsabilità dell’ipotesi, tranne che nelle poesia», cominciò a non-morire, a deambulare per le patrie lettere come un rimprovero disincarnato, paradigma e misura fantasmatica di ogni indignazione. È morto un poeta, pensai, così qualche giorno dopo in una splendida giornata di settembre, decisi di andare – o meglio strisciare – ai funerali che si sarebbero svolti nella basilica di Sant’Ambrogio.

(Continua a leggere su Rivista Studio.)

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Piccolo dizionario delle malattie letterarie – IL

hemingway-bedÈ uscito su IL, il mensile allegato al “Sole24Ore”, un estratto dal “Piccolo dizionario delle malattie letterarie”. Eccone qualche assaggio:

Anacoluto. Affezione di ceppo emiliano che spinge il paziente a scrivere come un bambino di sei anni in nome dell’antintellettualismo: “At let l’oltimm racaunt de x?” “Anca lo’ s’è ciape’ l’anacolut.”

Blog. Temibile forma di reflusso gastrico diffusa in Rete. “Hai un blog?” “Sì, purtroppo.”

Booktour. Pandemia di presentazioni inutili. “Questo autunno ci aspetta un booktour.”

Continua sul sito del Sole24Ore.

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Virginia e Anna. Di armonia risuona e di follia

Virginia_Woolf

(Questo articolo è uscito sulle pagine del Corriere della Sera qualche settimana fa.)

“In primo luogo, è pacifico che tutte le passioni rientrino nella sfera della follia.” È stato con queste parole di Erasmo da Rotterdam in testa, probabilmente, che qualche tempo fa un insegnante austriaco, in quel di Innsbruck, ha deciso di tenere lezioni regolari su un tema tanto delicato agli studenti delle scuole secondarie. L’obiettivo era avvicinarli a un discorso risospinto di continuo ai margini non tanto degli istituti scolastici, quanto della società e della vita civile stesse. Ed è senz’altro sulla falsariga di questo esempio che Eugenio Borgna – psichiatra vincitore del Premio Bagutta nel 2005 con L’attesa e la speranza – ha tenuto un seminario in un liceo di Novara per riprendere il filo di quel ragionamento intorno alle zone grigie tra malattia e creatività, tra norma e follia. Anche per ribadire che la nostra vita, stando al verso di Georg Trakl che regala il titolo al libro (“Campi del sapere” Feltrinelli, pp. 210, € 18) tratto da quelle lezioni, risuona di armonia e di follia, oscillando a volte impercettibilmente tra questi due poli.

Ma forse i presupposti risalgono a un momento ancora precedente.

“Vedo come danzano le stelle d’oro, / ancora è notte, ancora è il caos come mai ancora.” Sono due versi scritti da Ellen West. Non è una poetessa molto famosa. Anzi, a dirla tutta non è proprio una poetessa. Si trattava di una paziente di Ludwig Binswanger, massimo esponente della psichiatria fenomenologica (una branca che, per semplificare, interpreta la malattia mentale come uno dei modi possibili di porsi dell’essere umano). Il celebre psichiatra riportò i conati poetici di questa giovane donna in un saggio sulla sua degenza in clinica psichiatrica, per alcune turbe legate all’anoressia, e sulla successiva dimissione, culminata in un tragico suicidio. In quel dialogo tra psicosi e poesia, Binswanger si sforzava di rinvenire ed evidenziare il confine evanescente in cui l’una trapassasse nell’altra e viceversa.

Partendo da questo illustre presupposto, Eugenio Borgna ha continuato a esplorare nella propria opera la “sorella sfortunata della poesia”, e cioè il territorio della malattia mentale, in un modo nuovo. Non l’ha fatto da un punto di vista clinico, ma appunto fenomenologico, per cercare nel buio della mente una testimonianza sui tanti orizzonti e sulle innumerevoli gradazioni presenti nel dolore, nella malinconia e nella colpa, tanto negli artisti quanto nell’uomo comune. Qual è la realtà della follia? Qual è la sua immagine? E le opere del pensiero, come già suggeriva Franco Basaglia, non possono aiutare a decifrare le spirali, tuttora misteriose, della schizofrenia, della depressione e della psicosi?

Da qui parte un lungo percorso che si snoda attraverso le malinconie presaghe della poetessa suicida Antonia Pozzi (“Quando dal mio buio traboccherai / di schianto / in una cascata / di sangue – / navigherò con una rossa vela / per orridi silenzi / ai crateri / della luce promessa”), l’abissale misticismo di Teresa di Lisieux (“O Gesù! (…) Lasciami dirti che il tuo amore arriva fino alla follia…”), la malinconia creatrice di Søren Kierkegaard e lo straziante carteggio tra i poeti Nelly Sachs e Paul Celan, in un tentativo, davvero disperato, di chiedere aiuto a poesia e filosofia per decifrare i fenomeni della vita psichica.

È possibile intravedere nei deliri di Septimus l’ombra della fine che avrebbe fatto l’autrice della Signora Dalloway? Possiamo intuire qualcosa del peso che sovrasta l’anima del depresso in un quadro di Arnold Böcklin? Borgna procede come un Pollicino impavido, ogni volta smarrito in un bosco terrificante, e raccoglie uno dopo l’altro le tracce tormentate di chi è passato di lì, disseminando la propria opera di segnali e richieste d’aiuto, citazioni e squarci tragici. Quindi raffronta questi estratti con gli sfoghi espliciti, quasi urlati, dei suoi pazienti (Claudia, Elena, Raffaele: persone comuni), affetti dalle stesse malattie, con il risultato di farci leggere l’alienazione con gli occhi dell’arte e la poesia con gli occhi della malattia.

“Dilatare l’area della normalità nella follia e della follia nella normalità”, ci dice Borgna, deve essere la prassi di qualsiasi psichiatra, per capire che in ogni esperienza psicotica vivono zone di non-follia e, per usare due parole care a Simone Weil, che in ogni ombra c’è un po’ di grazia. Così le parole furibonde di Friedrich Nietzsche possono riecheggiare in quelle di un uomo precipitato nell’abisso della depressione, nel tentativo di riallacciare un dialogo necessario tra medico e paziente, tra vita e non-vita, in cui davvero, per rubare le parole usate da Cristina Campo in riferimento a Virginia Woolf, ogni artista, e prima ancora ogni essere umano, sembra solo nella propria esistenza come il ragno “unicamente sostenuto e insieme prigioniero del tessuto che ordisce (…) questa trama senza sosta riprodotta dalla creatura che vi corre sopra, attenta alla minima smagliatura, allo strappo più lieve: perché realmente la trama è seduta sopra un abisso, realmente un piede in fallo può significare la fine”.

Ecco che allora le affinità potranno emergere tra le esperienze più disparate e disperate, in un continuo e lacerante gioco di echi, dove l’obiettivo è sempre quello di riaffermare la dignità negletta dell’infermo. Se dal 1978, anno della legge Basaglia che chiuse i manicomi e regolamentò il trattamento sanitario obbligatorio, il malato non è più condannato alla reclusione, ciononostante continua a venire discriminato, come una colpa o un presagio infausto, nella vita quotidiana delle famiglie e della società civile. Non solo, emarginato nell’idea generale che abbiamo di lui. Incompreso e impenetrabile, il paziente finisce in un vuoto che non ha eguali. E forse accostare la voce di un classico a quella di uno sconosciuto qualsiasi può aiutare a capire.

Lo dimostrano questi due brani.

“Perché mai è così tragica la vita; così simile a una striscia di marciapiede che costeggia un abisso. Guardo giù; ho le vertigini; mi chiedo come farò ad arrivare alla fine. Ma perché mi sento così: ora che lo dico non lo sento più. Il fuoco arde; stiamo andando a sentire l’Opera del mendicante. Eppure è intorno a me; non riesco a chiudere gli occhi. È una sensazione di impotenza; di non fare nessun effetto.”

E poi: “Non voglio guarire, sì voglio guarire, ma non guarisco. (…) È una disperazione, è un caos. Mi faccia morire. Faccio diventare matti tutti. Non mi faccia più soffrire, sia bravo. Vorrei fare una cosa, e poi riprendere quella sofferenza. Mi faccia dormire, tanti giorni.”

Il primo è tratto dai diari di Virginia Woolf. Il secondo dalle sedute di una paziente anonima. Nel libro prende il nome semplice e bello di Anna.

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Alle prime luci dell’alba

vorrei che lei sparisse. Non mi

fraintendere. Vorrei sparire

anch’io. Vorrei sparisse

anche il mio letto. Il tetto

che vedo dalla mia finestra.

Vorrei che queste case, la città

che si desta, la festa della vita

e della civiltà sparissero

nelle ere del passato per lasciare

soltanto immacolato il piacere

che ci è stato dato.

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Oggi ti sogno con un altro,

un ceffo scaltro e deciso che ti tocca.

Mi sveglio all’improvviso

con l’amore in bocca.

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Hai ragione: sono uno

sbadato. Ma la questione

non è smarrirti nel passato.

Il disastro, te lo assicuro,

è che il tuo ricordo

si è perso nel futuro.

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L’adorazione

È uscito il nono numero del giornale di sconfinamento “Il Primo Amore”.

Ci sono saggi di Andrea Amerio su Primo Levi, di Teo Lorini su Alan Moore, di Andrea Tarabbia su Andrej Platonov, di Sergio Baratto su Boris Grebenscikov, le “17 preghierine per una nuova vita” di Antonio Moresco (con i dipinti di Giuliano Della Casa), una serie di straordinarie fotografie risorgimentali e molto, molto altro.

Io partecipo con un saggio in forma di lettera a Giovanni Testori e una poesia, che si può leggere anche qui.

Qui una pagina di presentazione sul sito.

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Monk

 

 

 

 

 

 

 

– Monk,

ti scrivo una poesia

che non conta e costa

niente dietro un vetro

dove speculo e rispecchio

monkagente in un pomeriggio di

silenzio (come tutti i

pomeriggi del pianeta).

Tra una nota e l’altra

– esita il profeta.

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Povere ragazze dell’Olgettina

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Povere ragazze dell’Olgettina,
una periferia senza scampo
e anche senza campo
di casermoni rossi
tutti uguali, appartamenti
minimal – legge il dépliant –
finestratura ampia, balconi
rotondi, parquet di pregio,
accanto a un ospedale
dove la gente muore
davanti a una trasmissione
di Gerry Scotti.
Povere ragazze dell’Olgettina
con le labbra gonfie di lavoro,
il seno traboccante di contratti,
le natiche in attesa
di un obiettivo qualsivoglia,
lo stacchetto come unico Dio
oltre la vaga promessa di un ministero
a tempo determinato.
Povere ragazze dell’Olgettina,
che si avvicinano ai microfoni
così indifese, così indignate,
che scelgono Dio, patria, famiglia
come tatuaggio sull’inguine.
Povere ragazze dell’Olgettina,
che arrancano con in mano
il cellulare despota,
croce e delizia, appiglio
ormai farinoso,
una placca lucida
retta come un vassoio,
dove ti ascolta il pubblico
ministero: mistero
delle intercettazioni.
Povere ragazze dell’Olgettina,
i vicini non vi vogliono
bene. Marysthel di
Colorado Café: “Ma
dove andrò con i miei
bambini?” Già, dove
andrà, dove andrà?
E dove andranno Imma,
Elisa, Ioana, Iris? Dove
la ragazza della Fattoria 4,
dove la schedina, la velina,
la letterina, l’olgettina, la
signorina, la marocchina,
la nipotina, la donna
diminutivo e diminuita?
Dove andranno?

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