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The same old stuff, due parole su Philip Roth

C’è una scena che racconta meglio di molte altre il segreto di Philip Roth. Si trova in un video dove viene incalzato da un intervistatore – un pelato paffuto vagamente simile a Philip Seymour Hoffman, se non ricordo male – che fa un lungo giro di parole per sottolineare come diversi critici abbiano riscontrato un cambio di marcia nel suo processo creativo verso la seconda metà degli anni novanta, quando è iniziata la maestosa fioritura tardiva di Pastorale americana e degli altri libri, e arriva a chiedergli se lui abbia avuto la stessa sensazione. Roth lo ascolta per tutto il tempo con quel cipiglio severo, le sopracciglia foltissime, la boccuccia quasi leziosa, e quando fa per rispondere si percepisce che l’intervistatore sta già per ridacchiare, sa già come risponderà, vuole sentirlo rispondere così, e Roth, più o meno: “Mi piace pensare che stessi facendo the same old stuff”. E lo sventurato intervistatore – sedotto, come sempre, come tutti – ridacchia. “Thank you, Mr Roth.”

 

Scrivere, la solita roba, niente di più: aveva già vinto tutto e avrebbe ancora scritto un paio di capolavori. Figlio di un assicuratore di Newark, di uno di quegli uomini operosi e sani e fiduciosi che hanno fatto l’America, Roth aveva introiettato lo sgobbo contro il talento, che pure aveva in abbondanza: talento mutevole, attentissimo, con un orecchio formidabile per i dialoghi e il giro di frase, talento per una capacità seduttiva cristallina che avvolge il lettore senza lasciargli mai capire da dove provenga il miracoloso impasto di voce e trama, una prosa pulita e robusta e avviluppante, mai pretenziosa; talento strutturale, perché i suoi libri sono solidissimi; talento comico e dolente, a volte utilizzati insieme con esiti altissimi; talento spietato nello sguardo mai stucchevole ma anche sentimentale, amorevole, autentico. Moltissimo talento, già, ma soprattutto tenacia. La lascia incarnare da Lonoff, lo scrittore modellato su Malamud nello Scrittore fantasma: “Io prendo le frasi e le giro. Questa è la mia vita. Scrivo una frase e la giro. Poi la guardo e la giro di nuovo. Poi vado a pranzo. Poi torno qui e scrivo un’altra frase. Poi prendo il tè e giro la frase nuova. Poi rileggo le due frasi e le giro tutte e due”. Ecco qua la tua scuola di scrittura, ecco qua la tua storia di vita. Lavora, gira le frasi, cerca di tirare fuori il meglio, anche quando tutto è un disastro.

 

Roth ci parla – stavo per scrivere ci parlava ma no – di un’epoca lontana in cui la letteratura era una vocazione totalizzante, a cui consegnare ogni cosa, ogni momento di vita, ogni impressione dell’occhio. Mettilo tutto a frutto, a costo di smarrirti. Commedia umana, grande romanzo americano, storia parallela: un libro dopo l’altro, l’io come riflesso del mondo, la casetta di Newark come prisma dell’America, l’ombelico come un aleph che ha dentro tutto. Scrivere, girare le frasi, provare con le storie a incidere sul mondo e su sé stessi. E ci riesce, trasformando Bellow e Malamud in una commedia più sboccata e più fruibile, cominciando subito a dare scandalo, tanto che viene messo a processo dalla propria comunità. Oggi non riusciamo a renderci conto di una società in cui i libri erano pericolosi, in cui un romanzo – per dire – veniva messo all’indice o, come era successo all’esordio dell’amata Edna O’Brien, bruciato in piazza. Ci voleva coraggio per rompere quelle convenzioni. Di più, ci voleva candore. Roth non è lo scrittore della trasgressione, è lo scrittore della sincerità, introiettata da Flaubert e Joyce e Henry Miller, eppure resa più vera e schietta, senza gli svolazzi del primo e i giochi linguistici del secondo e le visioni apocalittiche del terzo: chiama le cose col loro nome, se ne sei capace. Mai tirarsi indietro, mai temere di entrare in quella stanza, sotto quelle lenzuola, dentro quel bagno; è lì che si trova tutto il bello e tutto il brutto, è nella gloria risibile e immensa dei corpi che si amano, dei corpi che si martoriano, dei corpi che schizzano e che si bagnano, dei corpi che piangono e ridono, dei corpi che lottano uno aggrappato all’altro, è lì che troviamo la storia dell’essere umano, il suo tormento. Sempre senza avere paura, senza il velo menzognero della decenza, fino all’ultima incarnazione di Zuckerman nel Fantasma esce di scena, dove il protagonista parla con un giovane interlocutore che sostiene di sentire emanare da lui un odore di morte. “Macché,” risponde Z., “era odore di pipì, del mio pannolone, ecco cos’era.”

 

Ma quando la prostata indica la luna, lo stolto guarda la prostata. E così per anni ci siamo sciroppati la versione puritana di un Roth maschilista, ombelicale, patriarcale (non molto tempo fa la giurata di un premio, vedendo candidato un suo recente romanzo tutto sommato innocuo, disse che avrebbe preferito versarsi in testa una tazza di tè bollente), laddove Roth racconta il comico e il grottesco degli uomini arrapati, degli uomini senza pace, degli uomini buoni (Levov) e degli uomini cattivi (Sabbath), degli uomini devoti e innamorati e desiderosi e adulteri, e nel farlo inanella incredibili personaggi femminili, come Drenka Balich intenta ad ascoltare ossessivamente le onde radio della polizia per capire se il figlio è vivo, o come Faunia Farley, la bidella di cui si innamora Coleman Silk nella Macchia umana, o come la Scimmia, o come le tante incarnazioni della prima moglie, o come sua madre in Portnoy, “il personaggio più incredibile che abbia mai conosciuto” (signori della giuria: il pipparolo maschilista apre il libro pipparolo e maschilista ammettendo di essere un mammone).

 

Il sesso, quindi, certo. Forse un bel giorno si capirà quanto Roth sia riuscito a far emergere, insieme alla forza e al tumulto e all’orgasmo, anche la vulnerabilità. Esporre le proprie debolezze, le proprie malefatte, per essere sinceri, per raccontare. “Non possiedo nulla che possa interferire con una interpretazione obiettiva della merda”, dice Sabbath, la stessa merda che Roth pulisce dal corpo del padre nel memoir Patrimonio, in un rovesciamento amoroso che pochi scrittori avrebbero saputo affrontare (perché “non si fa”). E poi l’umorismo. Io non lo so quanto ho riso con Roth, di lui e di noi, di uomini e donne, della società e del mondo, del totalitarismo e del fanatismo (Operazione Shylock è un’enorme farsa religiosa: l’inizio di una buona commedia è sempre un po’ di sano self-hating, laddove l’inizio di un pessimo dramma è il compiacimento pomposo di molti narratori). Ancora non molto tempo fa lessi una recensione su una riedizione di Professore di desiderio. Si diceva: “Certo che ci vuole una bella faccia tosta per dedicarlo alla moglie, con tutte le porcate che combina nel libro Kepesh, perfino con una sua omonima…”. Riaprii il libro: era lo stesso che avevo letto io? Kepesh era un giovane uomo molto distante anagraficamente da Roth e, be’, io avevo sghignazzato dalla prima all’ultima pagina, di lui e delle sue tremebonde performance erotiche. E l’omonima? Nel libro era una ragazzotta americana con cui il protagonista da giovane aveva un breve flirt, laddove la moglie di Roth era un’adulta bellissima attrice inglese. Potenza di un semplice nome! C’è tutta la sua poetica in quella scemenza. Possibile, mi chiedevo, che la gente – un’illustre giornalista, nel caso – legga sempre Roth dal buco della serratura? Ma è sempre stato un suo cruccio e una sua forza. Si lamentava: “Mi leggono come se fosse il giornale, ma sono romanzi”, e da lì comincia una lunga tormentosa odissea in quello che è il vero tema dei suoi libri: l’identità. Sessuale, religiosa, famigliare, sociale, letteraria. Ingabbiata e allo stesso tempo persa, smarrita nelle lettere e negli strattonamenti incomprensibili del mondo, nell’assenza di libertà delle etichette. Non capire mai, non capire niente: guardare stupito, meravigliato, il mondo che si squaderna in tutta la sua furibonda idiozia, in tutta la sua esilarante mascherata. Quasi sempre il suo alter ego – Kepesh, Zuckerman, “Roth” stesso, Sabbath, sempre metà presenza e metà fantasma, metà vita e metà controvita – è stranito, smarrito, spaventato. Lo vogliono in un modo, lo vogliono in un altro. Roth ci rimane quasi sotto: le opere successive a Portnoy risentono moltissimo della fama e della paura e dello smarrimento dell’io. Perfino Martin Amis lo bacchetta: insomma, tre-quattro libri sul successo sono davvero troppi. E invece Roth persevera, va per la sua strada, la strada che si è costruito da solo con il primo stand-up novel della storia. E Zuckerman comincia lentamente a cambiare, a inabissarsi di nuovo finché non riemerge prima in quel capolavoro che è La controvita (dove anche Amis è costretto ad arrendersi: “Come una stella morente, Roth è rimasto in bilico sull’orlo di un collasso catastrofico. Ma ecco infine la supernova, che a guardarla fa quasi male agli occhi”) e poi ancora più in là, in qualità di testimone nella trilogia americana, ecco che l’ombelico ti spiega la Storia. Un narratore inaspettato, diverso dagli altri. Nuovissimo? Ma no: the same old stuff. Raccontare, senza ipocrisie, uomini e donne: noi. Thank you, Mr Roth.

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Il Grande Romanzo Americano – IL

great_american_novel_cartoon_by_mark_anderson_8791(Ho tracciato per IL una mappatura – abbastanza estensiva, a dire il vero – con ventiquattro esemplari del cosiddetto Grande Romanzo Americano. C’è qualche presenza immancabile, qualche esclusione illustre e qualche forzatura. D’altra parte è un giochino. Spero che magari qualcuno si metta a leggere, ad esempio, un capolavoro come Uomo invisibile, di Ralph Ellison, letto pochissimo in Italia e pubblicato da Einaudi.)

Nathaniel Hawthorne, La lettera scarlatta (1850). Dopo una serie di racconti emblematici (A come allegoria), uno scrittore di mezza età (A come autore) esordisce nel romanzo con una storia sulla relazione tra una donna sposata e un uomo di chiesa (A come adulterio), con tanto di figliola. Analisi del puritanesimo che vale ancora oggi: A come America.

Herman Melville, Moby Dick (1851). L’autore di alcuni romanzi di successo prende la balena per le pinne e uccide il campionato del GRA per sempre. L’ossessione shakespeariana, gli echi biblici, la bianchezza del male. Fu un flop, poi riemerse.

Mark Twain, Le avventure di Huckleberry Finn (1885). Bollato erroneamente come libro per bambini, è per Hemingway il primo cristallino vagito della letteratura americana. Huck e il nero Jim scappano lungo il Mississippi in zattera e il lettore, oltre a un Paese razzista, scopre il primo di tanti eroi scapestrati: «Santo Huck», come scrisse Nick Cave.

(Continua a leggere su IL.)

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A caccia di Philip Roth con Giulio D’Antona

Philip Roth(Qualche settimana fa Giulio D’Antona mi ha chiesto di raggiungerlo in un pub per fare quattro chiacchiere su Philip Roth. Il risultato è una conversazione finita sul suo bel blog di affari americani chez l’Espresso.)

Parlare di Philip Roth con Marco Rossari è come osservare uno chef stellato mentre dispone una parata di quaglie alla cacciatora su un letto di patate dolci. Bisognerebbe stare in silenzio e reprimere gli istinti di partecipazione, ma l’acquolina rende tutto molto più complicato. Prima di andare a caccia del mio rinoceronte bianco per la prima volta, siamo rimasti poco più di un’ora seduti fuori da un bar di Milano, con i tram che ci sferragliavano accanto e una sfilza di birre sotto il naso, a dirci tutto quello che c’è da sapere su quelli della sua specie. Lui ordinava e io gli andavo dietro. Ho provato in varie occasioni a inserire la conversazione in un contesto più ampio, ma proprio come è impossibile servire le quaglie di uno chef stellato a contorno di un’insalata marinara preconfezionata, sarebbe sbagliato relegare quello che segue a gregario di un altro discorso.

(Continua a leggere su Americanish.)

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Gli scrittori fantasma, un’antologia

BJ5Y8h9CMAAm1NWEsce domani Scrittori fantasma, lo pubblica Elliot (pp. 190, € 18,50) ed è curato da Piero Sorrentino e Massimiliano Virgilio. Si tratta di un’antologia in cui sei narratori – Giusi Marchetta, Maurizio Braucci, Giuseppe Montesano, Valeria Parrella, Lorenzo Pavolini e il sottoscritto – si confrontano con altrettanti scrittori-e-libri-fantasma della letteratura. Nell’ordine, Giusi ha scelto D.B. Caulfield, fratello di Holden; Maurizio il console di Sotto il vulcano; Giuseppe l’avvocato Costante Fuga, che accetta l’invito di Roberto Bolaño a scrivere una versione italiana della Letteratura nazista in America; Valeria è Hladík di Jorge Luis Borges e Lorenzo il Bartleby di Melville.

Per quanto mi riguarda, ho capito che era ora di saldare il debito con un totem. Così la scelta è caduta su Philip Roth e sullo scandaloso capolavoro comico scritto da Nathan Zuckerman, ossia Carnovsky, di cui si parla in diversi libri dove protagonista è il principale alter ego dello scrittore di Newark (per quanto nel racconto anche Kepesh e gli altri facciano una comparsata). Ora, confrontarsi con un gigante simile fa tremare i polsi, ma tutta l’operazione aveva una tale sfrontatezza che tanto valeva provarci. Così è nato un omaggio, una parodia, un divertissement, una riflessione sulla poetica rothiana e sulla sua decisione di smettere di scrivere, in forma di ultimo capitolo di un libro fantomatico, tradotto proprio da uno stanco mio omonimo.

Il racconto chiude la raccolta e, come mi hanno fatto notare i curatori, in qualche modo la riapre (ma bisogna arrivare alle ultime righe per capire il motivo). E spero che, nonostante i tanti ammiccamenti all’opera di Roth, sia leggibile in sé, come la storia di un ragazzo alle prese con un certo problema, simbolo di un rapporto ambiguo con la scrittura.

Altre due cose.

Una sulle coincidenze. Per ritrovare quella musica, ho letto un libro di Philip Roth che avevo sempre mollato – La mia vita di uomo – e ci ho ritrovato una scena che avevo già cominciato a scrivere. Quasi identica. Non solo. Prima di cominciare ho evitato di rileggere il Lamento di Portnoy, per non lasciarmi influenzare (Carnovsky sta a Portnoy come Zuckerman sta a Roth), ma quando l’ho riaperto, una volta consegnato il racconto, ho scoperto che avevamo citato la stessa poesia di W.B. Yeats, Leda e il cigno. Piccole fatalità o, mi piace pensare, affinità elettive. O forse criptoplagi della mia mente, chi lo sa.

Un’altra sulla metanarrativa. Come dicono gli scrittori enfatici: con questo racconto chiudo una fase. Tempo fa, dopo un periodo di relativa crisi, ho cominciato a riflettere sulla scrittura, forse per chiarire a me stesso il senso di quello che facevo (anzi: che, per un motivo o per l’altro, non riuscivo a fare). Da questo è scaturito L’unico scrittore buono è quello morto, pubblicato da e/o l’anno scorso, uno zibaldone di racconti semiseri intorno a questo mestiere e al lavoro editoriale, ma anche un rito apotropaico, uno sfregio, una presa in giro (in primis, di me stesso), o una bella sudata nella quale smaltire tutte le tossine accumulate negli anni. (Forse, allo scrittore morto non poteva non subentrare lo scrittore fantasma.)

Ora, io non credo che la metanarrativa, per usare un gioco di parole, sia una narrativa a metà. Non sarò certo io a buttare a mare Se una notte d’inverno un viaggiatore di Italo Calvino, Even Cowgirls Get The Blues di Tom Robbins o Gli inquilini di Bernard Malamud (per non parlare di Storia di nessuno, di 8 e ½ o degli autoritratti di Rembrandt). Lungi da me paragonarmi a questi giganti, blablabla, dico solo che questo è un tema come un altro, che se lo spazio della narrazione è sconfinato – e lo è – allora può benissimo comprendere i narratori stessi, e che a me interessa prima ancora come lettore che come scrittore. Nell’introduzione al volume i due curatori lo dicono con parole molto più eloquenti.

Detto questo, c’è un punto oltre il quale è difficile spingersi e l’offerta di Paolo e Massimiliano mi ha dato l’opportunità ectoplasmatica per chiudere un discorso. Il mio prossimo libro – se Vonnegut lo vuole – parlerà d’altro.

Intanto, accattatevi Scrittori fantasma. Ci sono dentro delle belle cose.

Buona lettura.

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Perdersi è meraviglioso. O: sei cose che in comune hanno solo me. O: le tag come cadavere squisito.

La lettura di domenica alla Libreria Centofiori tratta dai libri di Carlo Emilio Gadda ha avuto una benevola recensione da Anna Albano.

È uscito il tascabile di un libro a cui ho voluto bene. Sto parlando di Ferito, di Percival Everett, prima pubblicato da Nutrimenti e ora in edizione economica da BEAT.

Leonardo Merlini mi ha chiesto di commentare l’addio alla scrittura di Philip Roth. Ho detto la mia qui e qui.

Domani sarò ospite in diretta di Tourette, la formidabile trasmissione radio condotta da Giulio D’Antona e Matteo Scandolin, dalle 21 in poi.

È in edicola il nuovo numero di Rivista Studio. C’è un mio pezzo su miserie e miserie del lavoro editoriale. Qui i succosi contenuti.

Venerdì sera, in Santeria, io e Francesco Graziosi, traduttore del libro, presenteremo il volume di interviste a David Lynch appena pubblicato da Minimum Fax, Perdersi è meraviglioso. Qui tutte le informazioni.

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Chiamami nemesi

 

 

 

 

 

 

Foto in bianco e nero: un pischello in maglia a righe e jeans ruvidi, guantone alla mano sinistra e sguardo puntato verso l’improvvisato battitore all’altro capo del marciapiede, lancia una pallina da baseball al di là dell’obiettivo, verso il titolo in cima alla pagina. Eccola lì la piccola sfera, sospesa nel bianco munariano, come un minuscolo e allarmante sole nero in mezzo al cielo, condensare in un’unica immagine tutta la paura che attanaglia la piccola comunità di Newark, provincia immaginativa di uno dei più prolifici e osannati autori contemporanei, l’implacabile Philip “Rotativa” Roth. È la splendida copertina del suo trentunesimo romanzo, Nemesi (traduzione di Norman Gobetti, Einaudi, pp. 183, € 19,00), ennesima fatica di un’inarrestabile e quasi spaventosa tarda fioritura che ha visto sbocciare alcuni capolavori della letteratura mondiale e, grazie al cielo, qualche caduta di tono salutata con esultanza da chi non regge più tanta estenuata perfezione.

E invece rieccolo in forma, puntuale come un Goldoni d’oltreoceano, ad articolare l’ulteriore tassello di una commedia umana, troppo umana: siamo alle prese con una vicenda semplice, un apologo elementare, a volte quasi seccante quanto a linearità, tratteggiato con uno stile tanto limpido da apparire trasparente. Questo candore seduttivo che avvolge il lettore senza lasciargli mai capire da dove provenga il miracoloso impasto di voce e trama sgorga per l’ennesima volta dalle labbra di un testimone elusivo, vera e propria ossessione narratologica di questo romanziere, sempre metà presenza e metà fantasma, metà vita e metà controvita, che scelga come alter ego Kepesh o Zuckerman o “Roth” (ad esempio in Operazione Shylock).

A prendere la parola è Arnie Meskinoff – narratore invisibile (fatto salvo un accenno a pagina 71) fino all’epilogo – che snocciola la triste parabola del giovane Eugene “Bucky” Cantor, insegnante di ginnastica prestante e integerrimo a cui tocca in sorte di venire riformato per un problema alla vista e assistere da lontano al conflitto in corso in Europa e nel Pacifico (siamo nell’estate del ’44) più o meno come unico uomo in città, anzi mezzo uomo, ometto, omuncolo divorato dai sensi di colpa nei confronti degli amici al fronte nonostante sia, paradossalmente, un atleta nato. Peggio: quando l’orfano di guerra si trova in mezzo a un’epidemia di polio che comincia a decimare i ragazzini del luogo e a diffondere il terrore nelle buone e brave famigliole ebree della zona – placido sobborgo popolato da padri operosi dentro casette a schiera, marciapiedi curati, tendine linde, portici immacolati (“Esiste una casa più pulita di questa?” si chiede il padre di una vittima, in una perfetta epitome del bianco abbagliante e minaccioso dell’America puritana) – in quella che non esita a classificare come “una guerra contro i bambini di Newark”, non solo cede con propria meraviglia alla paura, dandosela a gambe levate in collina nel campeggio giovanile dove lo invita la promessa sposa, ma scopre con raccapriccio di essersi trascinato dietro la malattia e di avere contagiato alcuni imberbi campeggiatori.

Così non l'”uomo con una cappa nera, e il cappello sugli occhi” di manzoniana memoria, ma un giovanotto prestante e caritatevole personifica la minaccia in questa storia della colonia infame. Come ha potuto l’ometto dedito alla cura dei ragazzini, il catcher in the rye della filastrocca salingeriana, il seguace maniacale dei valori di prestanza, responsabilità, determinazione, competenza, equanimità non solo lasciarsi contagiare dal terrore ma addirittura farsene incarnazione, diffusore, untore? E com’è possibile che Dio (la cui grafia nella storia, con strategia ambigua, oscilla tra iniziale maiuscola e minuscola) abbia permesso questo sfacelo: la catastrofe bellica, la morte di tante vite innocenti e, first but not least, quella della giovane madre che morendo ha dato i natali a questo robot del dovere con le orecchie deformi, ma capace di splendidi lanci al giavellotto?

Certo, non è facile scaraventare sulle spalle di un personaggio tanto stolido una riflessione sulla teodicea che attraversa Dostoevskij, il concetto di capro espiatorio, le perenni tentazioni antisemite (ma anche paranoiche) della società e la tragedia del conflitto mondiale. Eppure, anche nei momenti in cui la scrittura di Roth vacilla e rischia di esporsi al ridicolo, ecco che miracolosamente trova appiglio in una scena memorabile, su tutte quella conturbante della madre di Bucky che da giovane si immerge in una tinozza piena d’acqua dove sguazzano le carpe e quella della farfallina iridescente che si posa sulla spalla di Bucky come un presagio.

Non è solo questo, tuttavia, a rendere credibile il libro. Perché a guardare bene Arnie Meskinoff non è l’unico narratore. Oltre all’ombra lunga di chi ha sapientemente disposto le parole sulla pagina, avvertiamo un’eco di quella stessa vocazione anche nel nostro antieroe: Cantor è palesemente doppio e riflesso del narratore (non è un caso che, pur contraendo la malattia, Meskinoff sia riuscito a vincere l’handicap e a farsi una famiglia, rappresentando la vita e la via parallela che il nostro non è riuscito a imboccare). Qual è il senso?, si ostina a balbettare lo storpio del quartiere, preso in ostaggio dalla memoria, nel tentativo di trovare il bandolo di una matassa tragica. Il mio regno per un significato. “L’inevitabile preludio a non capire”, chioserebbe maligno Mickey Sabbath. Da questo punto di vista Eugene “Bucky” Cantor non è solo onomasticamente il “cantore” della vicenda (così come il minorato Horace ne è il “chiaroveggente”, segno premonitore forse addirittura troppo esplicito), ma è un vero e proprio rapsodo che tiene insieme il racconto e allo stesso tempo lo alimenta, diffondendo il male e contagiando chi incontra. “Doveva trasformare la tragedia in colpa. Doveva trovare una necessità a quanto accaduto”. Proprio come direbbe qualsiasi scrittore che si rispetti: chiamami nemesi.

(Questo articolo è uscito per il quotidiano “Liberazione” del 20 febbraio 2011.)

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