“Ho sempre pensato che certi luoghi sono calamite, che ti attraggono se passi nei paraggi.” Con queste parole in epigrafe del Nobel Modiano, si apre l’introduzione al nuovo libro di Mario Maffi, Città di memoria (il Saggiatore, 357 pp., 19,50 €), il più recente tassello di un lavoro di mappatura ed esplorazione che porta avanti da una vita. “Quello di Modiano è stato un caso fortuito,” racconta divertito in un bar di Milano. “Il libro era già in bozze.”
Figlio di un intellettuale torinese che traduceva libri dall’inglese e dal francese, un antifascista che aveva imparato il russo in carcere ed era diventato amico di Cesare Pavese al confino in Calabria, Mario Maffi è cresciuto tra i libri, affascinato dalla traduzione (una parte del suo lavoro: l’ultima curatela è un tascabile del Popolo degli abissi, con fotografie inedite scattate da Jack London in persona), e dalle lezioni di Nemi D’Agostino, personalità carismatica con cui si laurea negli anni della contestazione. Dalla tesi nasce l’esordio, La cultura underground, pubblicato da Laterza (ancora in catalogo presso Odoya). “Ho vinto il Premio Libro Giovane per l’Unione Italiana per il Progresso della Cultura,” ricorda davanti a un bicchiere di rosso. “Ricevo una telefonata dall’editore: ‘Ma non ti sei presentato ieri sera alla consegna del premio’. Invece io non sapevo nulla.”
Il primo viaggio negli Stati Uniti è del 1975. “Alla Penn University, nel cuore della Pennsylvania agricola, dove lavoravo sul movimento operaio.” Con La giungla e il grattacielo, comincia a definire meglio la sua identità di autore che cerca di portare la pagina sulla strada. Ma è con Nel mosaico delle città, scritto in inglese – ottenendo un contratto da Macmillan, poi disatteso, e autotraducendosi in italiano – che la scrittura cambia davvero.
“Quando ho cominciato a lavorare sul Lower East Side, nei primi anni ’80, le suggestioni erano troppo forti, sia nell’immediato, sia riguardo al retroterra storico: c’era una densità stupefacente di memoria.” Comincia a raccogliere le esperienze della comunità portoricana e non solo, metabolizzando il materiale in un altro libro, L’isola delle colline. Stratificazioni storiche, incontri, perfino un’aggressione: tutto contribuisce a una narrazione unica della città. Scopre poeti come Miguel Piñero e Pedro Pietri (“Cimiteri a sinistra
/ cimiteri a destra
/ cimiteri davanti
/ cimiteri dietro /
miglia e miglia e miglia
/ di mute pietre tombali
/ è impossibile avere un’erezione /
a Long Island”). Porta il secondo in Italia per una tournée insieme a Paolo Rossi.
Documentato come Iain Sinclair, ma dotato di una prosa più chiara; vagabondo come William Least-Heat Moon, ma con una passione politica più intensa, Mario Maffi è un patrimonio un po’ trascurato delle nostre lettere, sebbene diversi scrittori – Paolo Cognetti, ad esempio – abbiano fatto tesoro della sua lezione. Non ha una prosa boriosa, ma è stato ordinario di Letteratura e cultura angloamericana all’Università degli Studi di Milano (“La mia vita accademica è sempre stata un po’ sul filo del rasoio: credo di essere stato considerato un po’ strano. Ma, a parte qualche ostilità aperta, guardato con rispetto”). Non è un romanziere, ma nei suoi libri trovi sepolti – o forse vedi sbocciare – centinaia di romanzi. Non è uno scrittore di viaggio, eppure gironzola come Teju Cole. “C’è proprio questa volontà di trovare dei tramiti, dei sensori, e di essere tu stesso un sensore. Non mi interessava chiudermi dentro ai testi, rinchiusi a loro volta dentro se stessi.” Come un rabdomante di storie, Maffi si aggira per i luoghi in cerca di episodi e rimanenze della storia e della memoria, sospesi in una sacca di tempo – uno usable past – in attesa di venire riportati alla luce. È capace di raccontarti la lotta di classe tra i cowboy, così come la luce che taglia un caffè a una certa ora del giorno.
Questo libro inclassificabile è una sintesi del lavoro che svolge da anni. È come se fosse partito da un racconto impersonale della letteratura e piano piano si fosse calato dentro a quel mondo, fino a introiettarlo in profondità. Qui affronta sei metropoli. C’è il ritorno al Lower East Side, prediletto territorio d’esplorazione, ripercorrendone passo dopo passo la storia a partire dai grandi tenements stipati di immigrati e via via fino agli Settanta. C’è l’esplorazione di New Orleans, già sfiorata in un altro libro maestoso come Mississippi (che in Francia, con Grasset, gli è valso il Premio Ptolémée de Géographie). C’è il vagabondaggio sotto le ceneri della Comune, non tanto come flâneur, quanto come una sorta di maieuta metropolitano, che aiuta la città a esprimere ciò che custodisce, seppellito sotto l’affanno dei giorni. Ci sono le città gemelle di Manchester e Salford, per raccontare il massacro di Peterloo che ispirò versi a Shelley e a Byron contro un politicante (“Qui giacciono le ossa di Castlereagh / Fermatevi, viaggiatori, e pisciate”). E infine c’è l’amata Londra.
“Se devo pensare a un altro libro, faccio fatica,” confessa, facendo gli scongiuri con un sorriso. “Lo sento come un po’ come la chiusura di un percorso. C’è l’aspetto di ricerca, far riaffiorare i materiali. E poi quello di esplorazione in prima persona, di coinvolgimento sentimentale. La cosa buffa è che le prime cose che ho scritto risalgono a quando avevo sedici anni. Le ho pubblicate su un giornaletto del movimento cooperativo svizzero a cui era abbonato mio nonno. La prima era intitolata Germania e la seconda Parigi: in fondo, erano già diari di viaggio.”
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