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New York Stories – IL

Times_Square_illumination_1921-1031x576(Ho scritto una breve recensione di New York Stories per il magazine del Sole 24 Ore.)

È un mito: la città, le stanze e le finestre, le strade che sputano vapore; per ognuno, per tutti, un mito diverso, testa d’idolo dagli occhi di semaforo che ammiccano verde tenero, rosso cinico.

Questa isola che galleggia su acqua di fiume come un iceberg di brillanti, chiamatela New York, chiamatela come vi pare; il nome non ha importanza poiché, venendo dalla più greve realtà dell’altrove, si è solo in cerca di un luogo dove nascondersi, dove fare un sogno in cui si abbia la prova che forse, dopo tutto, non si è un brutto anatroccolo, ma si è meravigliosi, degni di amore.

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Mario Maffi, rabdomante di storie

 

Maffi_Mario_small“Ho sempre pensato che certi luoghi sono calamite, che ti attraggono se passi nei paraggi.” Con queste parole in epigrafe del Nobel Modiano, si apre l’introduzione al nuovo libro di Mario Maffi, Città di memoria (il Saggiatore, 357 pp., 19,50 €), il più recente tassello di un lavoro di mappatura ed esplorazione che porta avanti da una vita. “Quello di Modiano è stato un caso fortuito,” racconta divertito in un bar di Milano. “Il libro era già in bozze.”

Figlio di un intellettuale torinese che traduceva libri dall’inglese e dal francese, un antifascista che aveva imparato il russo in carcere ed era diventato amico di Cesare Pavese al confino in Calabria, Mario Maffi è cresciuto tra i libri, affascinato dalla traduzione (una parte del suo lavoro: l’ultima curatela è un tascabile del Popolo degli abissi, con fotografie inedite scattate da Jack London in persona), e dalle lezioni di Nemi D’Agostino, personalità carismatica con cui si laurea negli anni della contestazione. Dalla tesi nasce l’esordio, La cultura underground, pubblicato da Laterza (ancora in catalogo presso Odoya). “Ho vinto il Premio Libro Giovane per l’Unione Italiana per il Progresso della Cultura,” ricorda davanti a un bicchiere di rosso. “Ricevo una telefonata dall’editore: ‘Ma non ti sei presentato ieri sera alla consegna del premio’. Invece io non sapevo nulla.”

Il primo viaggio negli Stati Uniti è del 1975. “Alla Penn University, nel cuore della Pennsylvania agricola, dove lavoravo sul movimento operaio.” Con La giungla e il grattacielo, comincia a definire meglio la sua identità di autore che cerca di portare la pagina sulla strada. Ma è con Nel mosaico delle città, scritto in inglese – ottenendo un contratto da Macmillan, poi disatteso, e autotraducendosi in italiano – che la scrittura cambia davvero.

“Quando ho cominciato a lavorare sul Lower East Side, nei primi anni ’80, le suggestioni erano troppo forti, sia nell’immediato, sia riguardo al retroterra storico: c’era una densità stupefacente di memoria.” Comincia a raccogliere le esperienze della comunità portoricana e non solo, metabolizzando il materiale in un altro libro, L’isola delle colline. Stratificazioni storiche, incontri, perfino un’aggressione: tutto contribuisce a una narrazione unica della città. Scopre poeti come Miguel Piñero e Pedro Pietri (“Cimiteri a sinistra
/ cimiteri a destra
/ cimiteri davanti
/ cimiteri dietro /
miglia e miglia e miglia
/ di mute pietre tombali
/ è impossibile avere un’erezione /
a Long Island”). Porta il secondo in Italia per una tournée insieme a Paolo Rossi.

Documentato come Iain Sinclair, ma dotato di una prosa più chiara; vagabondo come William Least-Heat Moon, ma con una passione politica più intensa, Mario Maffi è un patrimonio un po’ trascurato delle nostre lettere, sebbene diversi scrittori – Paolo Cognetti, ad esempio – abbiano fatto tesoro della sua lezione. Non ha una prosa boriosa, ma è stato ordinario di Letteratura e cultura angloamericana all’Università degli Studi di Milano (“La mia vita accademica è sempre stata un po’ sul filo del rasoio: credo di essere stato considerato un po’ strano. Ma, a parte qualche ostilità aperta, guardato con rispetto”). Non è un romanziere, ma nei suoi libri trovi sepolti – o forse vedi sbocciare – centinaia di romanzi. Non è uno scrittore di viaggio, eppure gironzola come Teju Cole. “C’è proprio questa volontà di trovare dei tramiti, dei sensori, e di essere tu stesso un sensore. Non mi interessava chiudermi dentro ai testi, rinchiusi a loro volta dentro se stessi.” Come un rabdomante di storie, Maffi si aggira per i luoghi in cerca di episodi e rimanenze della storia e della memoria, sospesi in una sacca di tempo – uno usable past – in attesa di venire riportati alla luce. È capace di raccontarti la lotta di classe tra i cowboy, così come la luce che taglia un caffè a una certa ora del giorno.

Questo libro inclassificabile è una sintesi del lavoro che svolge da anni. È come se fosse partito da un racconto impersonale della letteratura e piano piano si fosse calato dentro a quel mondo, fino a introiettarlo in profondità. Qui affronta sei metropoli. C’è il ritorno al Lower East Side, prediletto territorio d’esplorazione, ripercorrendone passo dopo passo la storia a partire dai grandi tenements stipati di immigrati e via via fino agli Settanta. C’è l’esplorazione di New Orleans, già sfiorata in un altro libro maestoso come Mississippi (che in Francia, con Grasset, gli è valso il Premio Ptolémée de Géographie). C’è il vagabondaggio sotto le ceneri della Comune, non tanto come flâneur, quanto come una sorta di maieuta metropolitano, che aiuta la città a esprimere ciò che custodisce, seppellito sotto l’affanno dei giorni. Ci sono le città gemelle di Manchester e Salford, per raccontare il massacro di Peterloo che ispirò versi a Shelley e a Byron contro un politicante (“Qui giacciono le ossa di Castlereagh / Fermatevi, viaggiatori, e pisciate”). E infine c’è l’amata Londra.

“Se devo pensare a un altro libro, faccio fatica,” confessa, facendo gli scongiuri con un sorriso. “Lo sento come un po’ come la chiusura di un percorso. C’è l’aspetto di ricerca, far riaffiorare i materiali. E poi quello di esplorazione in prima persona, di coinvolgimento sentimentale. La cosa buffa è che le prime cose che ho scritto risalgono a quando avevo sedici anni. Le ho pubblicate su un giornaletto del movimento cooperativo svizzero a cui era abbonato mio nonno. La prima era intitolata Germania e la seconda Parigi: in fondo, erano già diari di viaggio.”

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City on Fire – IL

9780385353779(Ho letto in anteprima per IL, il magazine del Sole 24 Ore, l’atteso esordio di Garth Risk Hallberg, City on Fire.)

Un grido s’avvicina, attraversando il cielo. Viene voglia di scomodare l’Arcobaleno della gravità per iniziare a parlare della fama che anticipa l’arrivo di un libro come City on Fire attraverso il firmamento delle fiere editoriali. E quel grido, ancora prima di capolavoro, dice: “Anticipo a sette cifre”. Qualcosa tipo due milioni di dollari. L’agente ha lanciato l’asta e un editore (Knopf) ci si è tuffato, seguìto da quelli all’estero (in Italia lo pubblicherà Mondadori, a gennaio, nella versione di Massimo Bocchiola, già traduttore di Thomas Pynchon, appunto, e altri giganti).

Hallberg va per i trentacinque anni, collabora con un po’ di giornali in vista e ha pubblicato alcuni racconti. Questo non è esattamente un romanzo d’esordio, ha già dato alle stampe uno strambo libretto intitolato A Field Guide to the North American Family, un racconto lungo con alcune illustrazioni. Qualche anno fa arrivando a New York in autobus dal New Jersey è rimasto colpito dallo skyline e ha avuto l’idea di una narrazione estesa che ruotasse intorno allo storico blackout del 1977. Ha preso un breve appunto e richiuso il taccuino. Sette anni dopo eccoci con novecentoventisette pagine e il bollino “Great American Novel” come un marchio del destino.

Sarà vera gloria?

(Continua a leggere sul sito del Sole24Ore.)

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La scrittura bighellona di Teju Cole – IL

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(Questo articolo è uscito su IL, supplemento mensile al Sole24Ore.)

Prendendo in prestito un aforisma di Archiloco, Isaiah Berlin scrisse che gli scrittori si dividono in due categorie: quelli riccio e quelli volpe. In sostanza, quelli che cullano una sola idea fissa da rimuginare in ogni libro e quelli curiosi che invece cambiano di continuo. La sintesi era che la volpe sa tante cose, ma il riccio ne sa una grande. In fondo non era un giudizio qualitativo e di sicuro non esaurisce la gamma offerta dalle lettere, però aiuta a mettere a fuoco un approccio alla scrittura e al mondo. La ripartizione torna in mente davanti al lavoro di uno scrittore come Teju Cole.

Di origine africana, Cole è nato negli Stati Uniti e cresciuto in Nigeria. Ha studiato psicologia e ha esordito nella narrativa con un libro intitolato Città aperta, pubblicato da Einaudi nella bella traduzione di Gioia Guerzoni, dove raccontava la vita riflessiva di Julius, emigrato africano di stanza negli Stati Uniti, padre nigeriano e madre tedesca, che studia psichiatria e bighellona per la New York post-11 settembre, ponderando identità, guerra al terrorismo, infanzia e Storia. In debito con le divagazioni di Sebald, il romanzo era un tentativo di flânerie metropolitana e seguiva (o meglio: si perdeva dietro) un senso di sradicamento, sbandando in tante piccole meditazioni digressive. Come il funambolo che nel 1974 attraversò le Torri, Città aperta oscillava tra romanzo e saggio, tra elucubrazione filosofica e istantanea poetica.

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La città dell’alfabeto

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(Ripropongo un mio sillabario spericolato su un viaggio invernale a New York, che un paio d’anni fa ho pubblicato sul Primo Amore.)

A come ABC. Dormo in Alphabet City, tra Avenue A, B e C. Terminati i numeri, in questo angolo di New York sono partiti dalle lettere. È qui che vengono a vivere tutti gli scrittori della città, per ordinanza comunale. Ispirazione urbana, calamoterapia del sonno. L’alfabeto ne stravolge la vita notturna, fruga nei loro sogni: compongono romanzi sonnambuli, camminando per il quartiere. La tastiera è la strada, lo schermo il riflesso sul vetro di un caffè, la stampa il muro pastrocchiato di un palazzo fatiscente: perfino i cagnolini a passeggio sfornano qualche interiezione nelle pagine più deboli del loro nuovo capolavoro. Mi sveglio di colpo, ho appena scritto questa frase: chiamalo sonno.

B come band. In qualsiasi isolato del Lower East Village o di Williamsburg trovi localini dove suonano band da pomeriggio a sera – alle sei, alle sette, alle otto e alle nove – quasi tutti gratis, a parte la birra. Alla fine casco sul muy divertido Marc Ribot: suona intorcigliato alla chitarra come un vitigno al palo, la testa china che lascia intravedere solo la chierica e riproduce in minore il gesto alla Miles Davis delle spalle al pubblico (poi imitato da innumerevoli direttori d’orchestra). Si aggroviglia intorno a un pezzo di John Coltrane. Se obbligo del musicista classico è di non lasciare intravedere niente della preparazione e dell’esercizio, il segreto del jazzista è l’opposto: aprire la parete dell’officina, mostrare la fatica, improvvisare. Di qui il sudore e l’eroina. A fine concerto, ovviamente, lo incrocio al bar che ordina un succo di frutta.

(Continua sul Primo Amore.)

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