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Il professor Guidalberto e la tenerezza di WhatsApp

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(Origami, l’inserto della Stampa, mi ha chiesto un racconto per l’edizione estiva. Eccolo.)

Cullato dall’aria condizionata della biblioteca, Guidalberto si accomodò sulla sedia, slacciò l’orologio dal polso e lo collocò sul banco. Quindi, con la cura di un prete quando maneggia un’ostia, appoggiò sul piano il volume e l’aprì. Si trattava dell’imprescindibile Studien zum italienischen und deutschen Humanismus del Bertalot (hrsg. von P.O. Kristeller, Roma 1975) e Guidalberto aveva atteso quel momento di pace come un bambino a luglio aspetta l’orario fissato dalla madre per mangiare il gelato. Canuto docente di Filologia rinascimentale, s’era preso la giornata per tornare su un classico della materia. Stava per affrontare il ghiotto pasto intellettuale, quando avvertì un fruscio dentro i pantaloni.

Era il telefono. Che però lui per scherzo chiamava l’Objekt.

(Continua a leggere su Origami.)

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I mostri di Luvano Beach – IL

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(Per lo speciale “Summer Fiction”, il magazine del Sole24Ore mi ha chiesto un racconto estivo. Eccolo qua.)

Potrei friggere un uovo sul cofano» pensò Benny, sigillato nell’abitacolo della macchina, il motore acceso e l’aria condizionata a mille. Un’ondata di caldo aveva svuotato la città, abbandonata dagli esseri umani come animali in fuga da un incendio. Solo che i suddetti esseri umani avevano lasciato gli animali a lui e al negozietto. «Pezzi di merda con la casa al mare o al lago» rimuginò, con la mente al monolocale infuocato dove viveva, unica metratura che potevano permettersi con lo stipendio di Chantal e il modesto compenso in nero che gli dava il cugino per sostituirlo ogni tanto al negozio dal lezioso nome Doggy Style. Animali pettinati&acconciati. Lui, Benny il Mastino. A fare lo shampoo. Ai cagnolini. Ma non aveva altra scelta.

Il bar sull’altro lato della piazza sembrava dall’altra faccia della Terra, anzi del deserto, e lui aveva ancora addosso l’odore di quel botolo di Linus. «Linutti», come lo chiamava la signora Pizzigalli. E poi non era Snoopy, il cane? Bah.
«Le raccomando Linutti» aveva pigolato l’arpia. «Me lo tratti coi guanti».
Coi guanti, certo, visto che il botolo puzzava da far schifo. E Benny l’avrebbe volentieri strangolato senza lasciare impronte. Ogni tanto, mentre lo lavava, stringeva appena appena per sentirlo tremare. Sarebbe bastato così poco. Ma come spiegarlo a suo cugino e alla signora Pizzigalli? Linutti non deve morire.
Aprì lo sportello con una bestemmia e uscì nelle sabbie mobili della giungla d’asfalto. Asfalto? Sembrava burro.

(Continua a leggere sul sito del Sole24Ore.)

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La donna che sparì in un telefono

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Che cosa c’è di tanto speciale lì dentro.

Solo dopo quella frase decise di fare sul serio.

Prima sapeva solo di averlo sempre con sé. Passeggiava fissando il display, soffriva durante la doccia quando non poteva tenerlo con sé, controllava gli account tra le venti-trenta volte prima di andare a dormire. Spesso si svegliava dopo mezz’ora di sonno: giusto per verificare le notifiche, lo stato di salute online, la vita.

Come tutti.

Niente di che.

La sua mente era sempre accesa. Spesso all’alba si svegliava come… come… L’unica immagine che le veniva in mente era quella con il suo telefono non appena lo metteva in carica e faceva quel confortante ronzio. Si svegliava come se una lenta scossa l’avesse appena attraversata.

L’elettricità era dolcissima.

(Continua a leggere su minimaetmoralia.)

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Dio e le carote


Copertina Unico scrittore(Un annetto fa ho pubblicato il libro qui accanto. Qui c’è la pagina ufficiale sul sito delle edizioni e/o e qui la rassegna stampa. Festeggio l’anniversario, che è un po’ anche un funerale, pubblicandone l’inizio, un’ipotetica risposta al più imperioso dei “Perché scrivi?”.)

Davanti a Dio, nel giorno del giudizio, avevo mentito.

Chissà perché, nel momento supremo, mi erano tornate in mente le carote. Mi spiego. Quand’ero piccolo mangiavo a scuola. In mensa c’era una tizia pingue e maleodorante, soprannominata la Lurida. Più che prepararci da mangiare, ci preparava e basta. Al militare, al futuro, al male. Per la Lurida noi stavamo al cibo come la giumenta sta alla sferza. Riuscivamo a ingollare tutto quello che cucinava, ma al momento delle carote lo stomaco capitolava e si rifiutava di buttare giù quelle radici insapori.

Ognuno cercava di scamparla a modo suo. C’era chi le ficcava in bocca, accompagnandole da una caraffa d’acqua (metodo Cisterna), chi le masticava per ore fino ad anestetizzare la mascella (metodo Spasmo), chi corrompeva il vicino con le figurine e gliele rifilava (metodo Premier).

Angelino aveva trovato un modo sicuro: si guardava intorno con aria circospetta, afferrava l’ignobile pastone e se lo infilava nella tasca del grembiule. Andando a casa, si liberava del corpo del reato in una discarica, dove veniva ignorato anche dalle pantegane più disperate. Era l’uovo di Colombo, eppure per chissà quale motivo nessuno si sentiva di emularlo.

Una sola volta gli era andata male. Un giorno, avvertito da qualche delatore, il preside si era presentato all’uscita della mensa. Si chiamava – lo giuro – Livorio Smricchio e aveva un carattere spigoloso quanto il nome. Irreggimentati in fila per due, eravamo transitati davanti all’arcigno Livorio. Io, di fianco ad Angelino. Al nostro passaggio Livorio aveva abbrancato Angelino e gli aveva intimato di vuotare le tasche. Al povero Angelino, non era restato che porgere le mani a coppa. Lì, come una grattugia di ostie rossastre stava l’orribile radice fosforescente.

“Perché l’hai fatto?” aveva tuonato Livorio.

Incassata la risposta, che io solo ero riuscito a sentire, l’enorme mano irsuta di Smricchio era calata sulla faccia glabra di Angelino, spalmandolo per terra.

Ma come mai, nel momento supremo, quando Dio mi aveva chiesto perché avevo scritto romanzi, avevo pensato alle carote? Non potevo guadagnarmi il paradiso dicendo la pura e semplice verità? In fondo, aveva sempre a che fare con Angelino.

Sì, lo so, forse avrei dovuto dire a Dio che tanti anni dopo avevo incontrato di nuovo Angelino in un parco. Mi era arrivata la voce che non gli fosse andata bene. Il ragazzino che nascondeva le carote nel grembiule era diventato uno dei tanti svitati che vagano per i luoghi pubblici. Insomma, Angelino era finito sulla strada. Era sporco, lacero. L’occhio vitreo, il passo strascicato, le unghie nere. Uno di quei mattocchi che hanno sempre un ritornello, una frase ossessiva, un disco rotto da balbettare ai passanti. Ogni matto ha un grido di battaglia, un nonsense necessario: la cifra distintiva di un’individualità spezzata ma sempre unica. Dieci parole che condensano tutte quelle di una vita ormai perduta. L’haiku dei dementi, l’aforisma stolto che per gli altri non ha significato.

Lui girava per il parco chiedendo a tutti se pagavano l’ambo sulla ruota di Lugano: era quella la sua fissa. Di solito la gente rideva, qualcuno gli dava uno spiccio, altri si allontanavano.

Non mi riconoscerà, avevo pensato. Mi chiederà solo dell’ambo sulla ruota di Lugano. Invece, si era piantato davanti a me e aveva detto: “Amico mio, sono disperato”. Ed era corso via. Ecco, nel momento supremo, avrei voluto dire a Dio che da quel momento avevo scritto solo per comunicare agli altri un’eco di quella voce rotta, un riverbero della sua pena:

“Sono disperato.”

Siamo tutti disperati, Angelino, e tutti quanti ce ne vergogniamo. Invece davanti a Dio in persona, che aveva tuonato “Perché hai scritto?”, mi era tornata in mente la risposta dell’Angelino bambino davanti a Livorio, con le carote in mano, ancora innocente, ancora ribelle, ancora combattivo. Avevo dato la stessa risposta gratuita che solo io avevo sentito.

“Perché l’hai fatto? Perché scrivi?”

“Per dispetto.”

E avevo aspettato lo schiaffone di Dio.

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Steven Amsterdam in Isbn

Questo mercoledì, 26 settembre, alle 18,30 in via Sirtori 4, presso la redazione della casa editrice Isbn, farò una chiacchierata con l’autore di “Ritratto di famiglia con superpoteri”, Steven Amsterdam. Qui la pagina dedicata al libro, tradotto benissimo da Anna Mioni, con un estratto e la rassegna stampa. (Poi non presenterò più libri per un paio d’anni.)

Fateci un salto, se vi va.

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