(Ho recensito per il magazine del Sole 24 Ore il nuovo romanzo di Michael Chabon.)
«“È tutto tuo. Te lo regalo. Quando non ci sono più, scrivilo. Spiega tutto. Mettici un significato. Usa un mucchio di quelle tue fantasiose metafore. Sistema tutto quanto nel giusto ordine cronologico, mica come il guazzabuglio che ti sto propinando io. Comincia con la notte della mia nascita. Il 2 marzo 1915. Quella sera c’era un’eclisse di luna, sai cos’è?”
“Quando l’ombra della Terra colpisce la luna.”
“Molto significativo. Sono sicuro che sia la metafora perfetta di qualcosa. Comincia da lì.”
“Un po’ scontato,” ho detto.»
Forse i posteri racconteranno del momento preciso nella cultura (letteraria) occidentale in cui l’invenzione non è più bastata. Accadde, diranno al nipotino davanti al fuoco, che ogni lettore provò un tic fastidioso: davanti a un’opera d’immaginazione domandava cosa ci fosse di vero e davanti a ogni opera ispirata a fatti realmente accaduti chiedeva cosa ci fosse di falso. Insomma, il romanzo senza il pettegolezzo non piaceva più, ma anche il memoir senza un intorbidimento delle acque aveva rotto i santissimi. Ecco che a un tratto, rinvenuta tra i sollazzi di certi oziosi intellettuali francesi, l’idea dell’autofiction aveva cominciato a dilagare. Poco importava che innumerevoli romanzieri avessero già ampiamente giocato con l’equivoco della scrittura e dell’io: non c’è niente come una nuova etichetta per rivendere un prodotto stantio. E così per lungo tempo, diranno al frugoletto, fioccarono racconti fittizi che giocavano con l’identità del narratore stesso, debitori di una fame di realtà individuata qualche anno prima in un saggio avventuroso scritto da David Shields. Era una moda?, chiederà il nipotino, un escamotage? I nuovi romanzi erano le persone? E in questo modo la verità poteva infiammare nuovamente la fantasia?
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