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Nel cuore della notte

Una decina d’anni fa ho provato a scrivere un racconto diverso rispetto alle cose che facevo di solito. C’era una voce che mi ronzava in testa da un po’, un tizio sdraiato in una notte d’estate che ascolta ossessivamente una sola canzone (che poi non è nemmeno una canzone). Ma ascolta quella voce, la voce di Harry Dean Stanton. E pensa e ricorda e pensa a un fatto terribile che gli è accaduto. Ma cosa? Ancora non lo sapevo. Ho scritto il racconto e l’ho anche letto in un bar. Un amico mi ha detto che non era male e che avrei dovuto scrivere altre cose simili. Anche a me pareva buono quel tono, più libero e più poetico, ma vatti a fidare degli amici e pure di te stesso.

È passato del tempo e ho scritto altre cose, sono naufragato in un romanzo, ho raccolto i cocci, ho tradotto un mucchio di roba, ho scritto un altro romanzo (Le cento vite di Nemesio), che questa volta è uscito ed è stata una bella avventura. Proprio mentre scrivevo quest’ultima cosa, che era comica e molto – diciamo – rigida (scaletta ferrea: l’umorismo è disciplina), ho cominciato a risentire quella voce, calda e buia e dolente. Un giorno ho avuto un’idea e all’improvviso una struttura si è aperta nel mio vacuo cranio. Al momento mi sembrava allettante, ma temevo che fosse una scusa per non finire il romanzo a cui stavo lavorando, come quando preferiresti leggere Hegel piuttosto che continuare a studiare Hegel. Così l’ho lasciata lì.

Poi ho avuto l’occasione di passare un mese a Londra, per varie ragioni. La voce era lì. Sapevo di non voler scrivere un altro libro con lo stile di quello precedente, volevo pagine più libere e più risuonanti, più ipnotiche e anche più rischiose. Volevo che fosse uno stile alto, caldissimo: una nota tenuta. Come il detestabile scrittore da cliché, tutti i pomeriggi andavo al pub e senza connettermi, senza un cavo d’alimentazione, scrivevo finché duravano la batteria e la lucidità. Poi me ne andavo. Alla mattina rimettevo in ordine quello che avevo scritto. Alla fine del mese il libro c’era, e lì è rimasto, di tanto in tanto riscritto e ripulito e accudito e guardato con sospetto, perché nel frattempo l’altro libro continuava a viaggiare. Infine è piaciuto a Einaudi.

Di che cosa parla, allora? Di una coppia, di amore, di morte, di poesia, di politica. È una storia. O forse è solo una voce nel buio. Sedetevi ad ascoltarla, se vi va. Nel cuore della notte.

Qui c’è la pagina sul sito dell’editore.

Qui c’è l’incipit letto da me.

Qui c’è Harry Dean Stanton che parla, l’inizio di tutto.

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Bob Dylan. Il fantasma dell’elettricità

(Esce giovedì 16 marzo un mio libro su Bob Dylan per Add editore, 190 pagine per 13 eurini. Ne sono molto, molto felice. Lo presenteremo il 14 a Torino alla libreria Bodoni e il 23 a Milano alla Verso, poi a Bookpride e in tanti altri posti. Io l’ho chiamato passional essay, un’autobiografia per interposto cantante, un saggio viscerale che corre attraverso la sua e la mia vita, ma è soprattutto un libro che ho amato moltissimo scrivere. Qui c’è la scheda sul sito dell’editore, qui una versione della canzone da cui nasce il titolo, qui di seguito invece una specie di introduzione.) 

Questo libro non è un saggio. Intorno a Dylan sono stati scritti migliaia di volumi, uno si intitolava perfino Oh no! Non un altro libro su Bob Dylan. Sono state analizzate le influenze di Leadbelly, di Shelley, di qualche spirito egizio e di suo cugino. Si è discusso delle radici bibliche di molte canzoni, dei motivi blues e folk che le innervano, degli ammiccamenti al vecchio West.

Questo libro non è una biografia. Ne sono già state scritte tante; qualcuna più agiografica, qualcuna più scandalistica. Della vita di Dylan si sa quasi tutto, ormai. (Ma poi di quale vita? Le versioni intorno al suo trasferimento a New York, al celebre incidente di motocicletta, alla fine del primo matrimonio, alla conversione al cristianesimo sono innumerevoli, contraddittorie, nebulose. Ogni fatto è sconfinato nel mito, alimentato non solo dalle sue menzogne doverose e dalle sue sanissime ambiguità, ma anche dalla distanza e da quel rashomon collettivo che è la vita di una rockstar.)

Questo libro non è un’agiografia, ma non è nemmeno una demolizione. Con Dylan il caro vecchio «giù la statua» è facile. Provate a invitare qualcuno a bere un bicchiere e mettere su certi dischetti anni Ottanta. Difficile che a un tratto non alzi la testa per sbottare: «Ma che è ’sto strazio?». E poi, quanti scivoloni: suonare davanti a un reazionario come il Papa, vendere i diritti di «The Times They’re A-Changin’» per lo spot di una società informatica, partecipare alla pubblicità di un’auto. (Non ha solo concesso una canzone: c’è proprio lui al volante del Suv.) Dice tutto e il contrario di tutto. Ha scritto canzoni devote. Ha scritto canzoni brutte. (Basterebbe un distico da «I Threw It All Away»: «L’amore è tutto quel che c’è, fa girare il mondo / l’amore e solo l’amore, è innegabile». O ancora «Mozambique»: «Sdraiato accanto a lei davanti all’oceano / allunghi una mano e prendi la sua / mentre sussurri la tua emozione segreta / magica in una terra magica») (ho tradotto per agevolare la lettura, ma non sono quei testi che «ah, in inglese, cantato da lui, è un’altra cosa») (e il recente disco di canzoni natalizie: da accapponare la pelle).

Questo libro non è una cronologia, perché si muove su diversi piani temporali.

Questo libro non è un album di fotografie, anche se c’è qualche immagine.

Questo libro non è un instant. O se lo è, è un instant che dura da almeno quarant’anni.

Questo libro non è una raccolta dei testi migliori. Non c’è alcun tentativo di far passare Dylan per poeta, come in quei florilegi che accatastano i versi migliori nel risibile tentativo di inseguire una dignità cartacea della quale a lui stesso non è mai fregato nulla.

E poi: esiste un’espressione più vacua di “poeta”? Ma lasciamo la parola a lui.

DYLAN: Preferisco considerarmi un trapezista.

Grazie, Bob. Ora passiamo oltre.

Questo libro è la storia di tre canzoni.
 Questo libro è una storia di fantasmi.
 Questo libro è la mia storia, una parte della mia storia, in compagnia di Bob Dylan. È la mia lettera elettrica.

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Qualche altra vita di Nemesio

cylgjjhxeaawmwg-jpg-largeÈ uscito da un paio di mesi e quindi tanto vale fare il punto in attesa della presentazione romana a “Più libri più liberi” con Nadia Terranova.

Sono uscite un po’ di recensioni e interviste. (Qui la rassegna stampa completa.) Ne segnalo qualcuna:

Questa, appunto, di Nadia Terranova sul Foglio.

Questa di Pierluigi Battista sul Corriere della Sera.

Questa di Teo Lorini sul Primo Amore.

Questa di Sergio Garufi su Nazione Indiana.

Qui con Jacopo Cirillo su Finzioni.

Qui a Fahrenheit su RaiRadio3.

Qui con Mariarosa Mancuso sulla RSI.

Qui con Bruna Miorelli su Radio Popolare.

Poi c’è stata un’anteprima sul sito di IL, una rivelazione su Il Libraio, un po’ di presentazioni in giro from Morbegno to Bari. Credo che andremo avanti ancora per un po’ nel 2017. Nemesio lives!

 

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Le cento vite di Nemesio

cop-def-nemesioEccoci qua. Domani esce Le cento vite di Nemesio per la casa editrice e/o (“Quella di Elena Ferrante,” com’è ormai comodo dire al biscugino per chiarire). Che cos’è questo libro, dunque, a parte ogni momento libero degli ultimi anni? Di tanto in tanto qualche amico, per colmare il momento di stanca alla terza birra media, mi chiedeva di che trattava il romanzo. Rispondevo cose evasive, del tipo: “È una storia, capisci?, una bella storia”, “Bah, è una grande avventura”, “Sì, un’avventura”, “Piuttosto ampia”, “Una storia, sai, con dei personaggi”, a volte ricorrevo perfino all’orrendo “È una storiona” (che sembra la femmina di un pesce). Insomma, qualsiasi giro di parole utile a chiarire in tono vagamente querulo: “Te lo giuro, non è la solita pippa intellettualoide per addetti ai lavori”. E in effetti non sapevo bene come giustificare questa scorribanda lungo il Novecento, se non con il detestato ricorso alla bontà delle storie e della narrazione. La trama si fa da sé, i personaggi fanno quello che vogliono, e altre scemenze. Balle, si fa una gran fatica, ma è stato singolare scriverlo, vederlo crescere, fare la pipì dappertutto, volerlo strozzare, volergli molto bene. Ad ogni modo è effettivamente una grande avventura (cinquecento pagine, chiedo scusa fin da ora), racconta di un padre ingombrante e di un figlio remissivo. Il primo – centenario – è stato un grande pittore del secolo scorso; il secondo – trentenne – lavora come maschera in un museo: nel corso di una settimana e di un secolo, il figlio rivivrà le cento vite del padre in una serie di situazioni picaresche che lo porteranno a… Niente, sto già scimmiottando i finti blurb e le quarte di copertina (quella di Nemesio è qua; nella cartella stampa si raccontava di un “grande romanzo, italiano e postmoderno”: riguardo a grande e postmoderno non metto la mano sul fuoco, ma di sicuro è italiano). Dicevo, è una storia lunga. Ci sono Billy Wilder, una mondina attraente, Filippo Tommaso Marinetti, un bambino che non cresce, un partigiano che non ricorda, diverse iniziazioni, una poetessa greca di nome Marakela, un cimitero di materassi, qualche guerra, parecchie situazioni ridicole, un secolo. Una bella avventura. Un’avventura, sì. Sì, guarda: è proprio una storiona.

Spero che ti diverta.

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In un palmo d’acqua, in un palmo d’aria

cop.aspxParecchi anni fa arrivò la telefonata di un editor che mi proponeva di tradurre uno scrittore mai sentito prima. Gli chiesi di mandarmi il manoscritto e cominciai a leggerlo subito. Era una stampata senza una fotografia e non avevo nemmeno googlato il tizio. Il romanzo parlava di un professore e di una pittrice in crisi, raccontati dal punto di vista di un bambino piccolissimo, genio inverosimile in grado di leggere Greimas e di fare giochi di parole intorno a tutto lo scibile immaginabile. Mi stavo divertendo come un pazzo, quando a un tratto, dopo almeno cento pagine, il bambino si riferiva in modo imprevisto al colore della sua pelle e all’improvviso feci un sobbalzo. Non l’aveva specificato in nessun punto, ma la famigliola che per pigrizia avevo immaginato bianca era in verità nera, così come nero era il protagonista. Lì l’autore aveva messo una nota, che più o meno recitava: “Ah, fino ad ora avevate creduto che io fossi bianco?”. Era la prima volta che un autore giocava in modo così abile con il mio ruolo di lettore. Accettai la traduzione. Il libro s’intitolava Glifo, fu un discreto successo e io mi occupai in seguito di altri cinque suoi romanzi.

Non so dire che cosa abbia voluto dire per me lavorare su Percival Everett. Tradurlo è stato un divertimento, una fatica, un atto d’amore, una rivelazione, un inferno. Ma non solo. In quell’equilibrio sospeso e insolito che attraversa tutta la sua opera, tra sperimentalismo e tradizione, tra umorismo e tragedia, ho trovato una mia strada, qualcosa che mi parlava di quello che avrei voluto scrivere io (con risultati senz’altro più incerti e mediocri). In sintesi, parlava di me, parlava con me: grazie ai giochi linguistici, all’umorismo talvolta demenziale, alla nota cupa accostata a quella leggera, al porre questioni e non dare mai soluzioni, al piglio divertito con cui affrontava i problemi. Diversi passaggi dell’Unico scrittore buono è quello morto non sarebbero mai nati (o comunque non sarebbero nati così) senza l’attraversamento, parola per parola, di quei sei libri.

Adesso Percival Everett torna nelle librerie italiane con una nuova raccolta di racconti: In un palmo d’acqua (Nutrimenti, pp. 190, € 17). E di nuovo, nonostante le tante pagine che ho scritto su di lui, sono qui a chiedermi cosa mi piaccia tanto della sua scrittura, perché faccia sempre il suo nome quando mi chiedono qual è lo scrittore che ho tradotto a cui mi sento più vicino. Qui il lato più temerario del suo stile è accantonato in favore di una grande linearità. La pagina è piana, le storie semplici, per quanto vi sia sempre un tremito sottotraccia, una vibrazione nascosta che da un momento all’altro potrebbe slogare la sintassi o far apparire, come in Deserto americano, un uomo senza testa in grado di camminare e parlare (e qui, in effetti, appare). Anche quando è pulito, Everett lo è solo in modo apparente e tradurlo non è per nulla facile. Ha un rapporto conflittuale con il linguaggio, anche quando lo tiene a bada. Vi si avvicina come i suoi personaggi si avvicinano ai tanti cavalli che popolano i suoi romanzi: ci vuole rispetto, equilibrio, perché da un momento all’altro potrebbe capitare qualcosa d’inconsueto e un po’ vogliamo che accada (la paura è desiderio). L’esitazione compare anche nei dialoghi. Anni fa ho chiacchierato un po’ con Percival Everett. Eravamo alla Fiera di Torino, avevo appena tradotto un suo libro e ci siamo messi a scambiare un po’ di idee intorno alle cose che aveva scritto. È stato buffo. Lui era gentile, comprensivo, ma alla lunga, dopo avere esaurito tutte le osservazioni pseudobrillanti che avevo da sfoggiare, è sceso un silenzio che mi è risultato stranamente familiare. Spesso nei suoi libri, all’improvviso, due persone non hanno più niente da dirsi. Hanno chiacchierato un po’, si sono rimbalzati qualche riflessione, a volte piacevole altre volte guardinga, poi è finita, non c’è più niente da raccontare e restano lì un po’ impacciati. Sembrano rimpiangere di non essere in compagnia di un cane o di un cavallo o di un qualsiasi animale muto, governabile, saggiamente tacito davanti al mondo. E allora eccomi lì, a Torino, in quel silenzio, sprofondato nella poetica dell’autore che avevo appena tradotto. (Sono contento che, con Letizia Sacchini, Everett abbia trovato una nuova voce equilibrata, attenta, precisa. Seguire ancora uno scrittore tanto amato grazie a una traduttrice così sapiente è confortante.)

Che cosa c’è in questo nuovo libro? Ad esempio c’è un racconto dove un ragazzo deve superare il lutto per la morte della sorella, o forse non deve superare niente, forse vuole solo essere lasciato in pace. Dai genitori e da una psicologa e dal pensiero che si debba sempre fare qualcosa. È un racconto che ha una strana qualità onirica, non succede quasi niente, forse deve apparire un orso ma non appare, forse compaiono due alci ma è un attimo, forse guizza un pesce enorme. Mentre leggevo, pensavo che una delle qualità di Everett è questo continuo assestarsi in una terra di nessuno, a metà strada tra la vita e il sogno. Spesso nei suoi libri, un personaggio appoggia per un momento il capo da qualche parte e sprofonda in una narrazione diversa, plausibile e allo stesso tempo impossibile, come tutte le narrazioni. È lì che Everett trova un contrappeso, nella terra dei sogni, delle parole e delle immagini sempre evanescenti eppure così profondamente innestate nel nostro cuore, che poi in un attimo, con una chiusa fulminea, ci abbandonano, e il racconto – il sogno – è terminato.

Alcuni racconti sono compiuti, finiti, definiti. In altri sembra di vedere un unico episodio di una serie tv, un pilota, un unicum vacuo e abbandonato, ed è bello: hanno trovato delle vacche morte, un uomo vuole truffare un’assicurazione, c’è uno sceriffo stanco e scettico, una famiglia assassinata in un ranch, un uomo impazzito, che cosa accadrà?, che cosa ne sappiamo?, saranno giusto un paio di colonne in cronaca?, un rigo in letteratura? Quando tutte le domande sono state fatte e nessuna ha trovato risposta, Everett si ferma sul volto di un uomo e sulla neve che vortica. Punto. È quel momento di sospensione che, inceppando la storia, costruisce la letteratura: che cos’è il senso di una narrazione se non l’attimo in cui l’episodio televisivo si fermava sul classico cliffhanger e compariva il nome dei produttori? Ma soprattutto: perché poi continuare?

E poi ecco una valletta inquietante trovata durante una cavalcata che ricorda l’aldilà, un indiano che assomiglia a un attore famoso, un personaggio irrintracciabile da cui sentirsi intimiditi (anche se non è chiaro chi minaccia chi), ecco un sogno miracoloso, ecco un terremoto. Il deserto è sempre lì, più o meno immutabile. Gli animali sono sempre lì, più o meno ammaestrabili. Sono gli esseri umani a risultare imprevedibili. Neri, indiani, bianchi, meticci, donne, uomini, bambini, adolescenti, umani.

Ho letto i racconti di notte, in un palmo d’aria afosa, e il passo di Everett ha la forza di rasserenarmi, anche quando ti mostra una famiglia uccisa a fucilate. C’è un ordine stolido nella sua pagina, che ricorda la vocazione di alcuni protagonisti a sistemare le cose, sebbene la moglie li abbia lasciati, il mondo vada a scatafascio e da un momento all’altro stia per succedere qualcosa di terribile, fosse solo un gioco di parole. Dietro ogni persona, c’è una piccola minacciosa alterazione del mondo. E dietro ogni storia semplice, c’è un mistero. Dietro le parole, il caos: noi.

 

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Piccolo dizionario delle malattie letterarie

Svevo_Rossari_OKMC1È appena uscito per la rinata Italo Svevo il mio Piccolo dizionario delle malattie letterarie (con una prefazione di Edoardo Camurri, pp. 60, 10 €), un catalogo di malanni tipici delle lettere. Inutile dire che io ce li ho tutti.

Qui un’anteprima sul sito del magazine del Sole 24 Ore, che ha ospitato qualche anno fa il primo vagito di questo libretto (grazie a Christian Rocca e ad Antonio Sgobba).

Qui un’altra anteprima sul sito del Libraio.

Questo un estratto della mia postfazione:

La letteratura è una malattia contratta nell’infanzia, quando il corpo è più gracile e indifeso (per non parlare della mente, vulnerabile e suscettibile agli stimoli). Tu sei lì, ancora imberbe, ed ecco che un padre o una madre o un amico, o magari perfino un pediatra, ti allungano un libro per distrarti e superare il morbillo o una brutta influenza. Salgari, Dumas, Roald Dahl. Morbo contro morbo, chiodo scaccia chiodo, omeopatia. E tu stavi così bene con il tuo videogame.

Funzionerà?

Lo apri, ad ogni modo. Leggi, ti piace, ti entusiasma. La scarlattina sarà anche passata, ma un altro virus è entrato nel tuo corpo. Non sei più lo stesso, vuoi leggere ancora, cerchi un altro farmaco (ma phàrmakon, si sa, voleva dire anche “veleno”). Passi ad altri scrittori, col tempo affronti i russi, Baudelaire, Neruda, quindi tutto il resto.

E poi, terribile degenerazione, vuoi provare a farlo anche tu. Sei pallido, emaciato, semitisico (fumi Gauloises senza filtro: fanno schifo, ma l’hai letto in un romanzo francese). Lo spirito imitativo ti ha posseduto: tremi di una febbre dostoevskijana (basta la parola “morale” a farti entrare in deliquio), vacilli per un male tolstojano (pensi a Dio, a volte non in termini lusinghieri), senti la vibrazione di Emily Dickinson (“As One does Sickness over
 / In convalescent Mind,
 / His scrutiny of Chances
 / By blessed Health obscured…”). Allora prendi la penna e, invece di chiedere aiuto a qualcuno, scrivi una poesia.

Sei spacciato?

Buona influenza.

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Il gatto di Platone e altri animali

sleeping_cat_tattoo_by_ivvi_qol-d48plnf(Qualche tempo fa mi sono messo a scrivere poesie per ragazzi. Traducevo molto e in pausa, mangiando qualcosa, mi divertivo a tirare fuori qualche rima alla Scialoja, con l’idea magari di farle leggere ai miei nipoti. Col tempo, in attesa di un illustratore e di un editore, le poesie sono rimaste lì a formare un libretto dal titolo Il gatto di Platone e altri animali e i miei nipoti sono arrivati quasi in età da rave, allora ne posto qualcuna qui.)

 

Il gatto di Platone

si fa una dormita:

ha rubato al padrone

il senso della vita.

 

*

 

Sullo stelo

per i fans

l’ape fa

lap dance.

 

*

 

L’ippopoeta nel talamo

scrive t’amo con il calamo.

E le ippopotame lo amano.

 

*

 

Il ragno nero e peloso

lo cacciavano sempre via.

È diventato pensoso

e discetta di filosofia.

 

*

 

La mosca bianca

e la pecora nera

giocano a scacchi

quando scende la sera.

 

*

 

(Il bruco innamorato)

 

Non è la polpa buona,

che cerca nella mela

ma solo un’altra volta

il tocco lieve di Eva.

 

*

 

Nella palla di vetro

dello zingaro ucraino

il pesce rosso tetro

vede il suo destino.

 

*

 

Quando il bruco

balla il tuca tuca

faticando a coordinarsi

s’intorciglia con la bruca.

 

*

 

Se il lupo luma

la luna, all’una

la luna s’allupa.

 

*

 

Il grido a squarciagola

nella vasca da bagno

della donna ignuda e sola

attende, bieco, il ragno.

 

*

 

Risale il salmone

tra una rapida e un sasso

per guardare il tonno

dall’alto in basso.

 

*

 

Il gatto

di Matisse

dipinge con

le sue vibrisse.

 

*

 

Quando gli si rompe il radar

al pipistrello resta il tavor.

 

 

 

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L’uomo con la macchina sparasottotitoli

apartment-end-title-screen(È online il mio tragicomico articolo uscito su IL di ottobre intorno al mondo infero delle cineteche.)

Come usano dire le soubrette, il cinema è sempre stato la mia passione, così quando anni fa una cineteca mi propose di stilare qualche comunicato stampa, accettai. Soprattutto avevo accesso alla sala gratis: se conoscevo una ragazza reclusa e con una vaghezza autistica per i primi piani di Dreyer, potevo sempre portarla lì senza spendere un soldo. In breve la collaborazione si diversificò e mi fu proposto di tradurre le didascalie per qualche documentario. Convinto che fosse l’inizio di una qualche carriera, rimasi male quando mi proposero di lavorare in sala. «Come maschera?» domandai, ansioso per il declassamento. «Come proiezionista. Solo che non dovrai occuparti della pellicola, ma dei sottotitoli».

Grazie ai film guardati in dvd o mandati dalla tv satellitare, siamo abituati a considerare i sottotitoli parte integrante della visione, sincronizzati a puntino. Così, quando assistiamo alla proiezione di un film, pensiamo che la didascalia sia bilanciata automaticamente sulle immagini. Non è così. Nelle cineteche e ancor più spesso durante i festival, dove i film arrivano ancora allo stato brado (e a volte lo rimangono), esiste un individuo in carne e ossa, una figura oscura che da una piccola cabina alle spalle di tutti segue il film passo per passo, parola per parola, e proietta un sottotitolo dopo l’altro schiacciando, ebbene sì, un tasto.

(Continua a leggere sul sito del Sole24Ore.)

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Gli scrittori fantasma, un’antologia

BJ5Y8h9CMAAm1NWEsce domani Scrittori fantasma, lo pubblica Elliot (pp. 190, € 18,50) ed è curato da Piero Sorrentino e Massimiliano Virgilio. Si tratta di un’antologia in cui sei narratori – Giusi Marchetta, Maurizio Braucci, Giuseppe Montesano, Valeria Parrella, Lorenzo Pavolini e il sottoscritto – si confrontano con altrettanti scrittori-e-libri-fantasma della letteratura. Nell’ordine, Giusi ha scelto D.B. Caulfield, fratello di Holden; Maurizio il console di Sotto il vulcano; Giuseppe l’avvocato Costante Fuga, che accetta l’invito di Roberto Bolaño a scrivere una versione italiana della Letteratura nazista in America; Valeria è Hladík di Jorge Luis Borges e Lorenzo il Bartleby di Melville.

Per quanto mi riguarda, ho capito che era ora di saldare il debito con un totem. Così la scelta è caduta su Philip Roth e sullo scandaloso capolavoro comico scritto da Nathan Zuckerman, ossia Carnovsky, di cui si parla in diversi libri dove protagonista è il principale alter ego dello scrittore di Newark (per quanto nel racconto anche Kepesh e gli altri facciano una comparsata). Ora, confrontarsi con un gigante simile fa tremare i polsi, ma tutta l’operazione aveva una tale sfrontatezza che tanto valeva provarci. Così è nato un omaggio, una parodia, un divertissement, una riflessione sulla poetica rothiana e sulla sua decisione di smettere di scrivere, in forma di ultimo capitolo di un libro fantomatico, tradotto proprio da uno stanco mio omonimo.

Il racconto chiude la raccolta e, come mi hanno fatto notare i curatori, in qualche modo la riapre (ma bisogna arrivare alle ultime righe per capire il motivo). E spero che, nonostante i tanti ammiccamenti all’opera di Roth, sia leggibile in sé, come la storia di un ragazzo alle prese con un certo problema, simbolo di un rapporto ambiguo con la scrittura.

Altre due cose.

Una sulle coincidenze. Per ritrovare quella musica, ho letto un libro di Philip Roth che avevo sempre mollato – La mia vita di uomo – e ci ho ritrovato una scena che avevo già cominciato a scrivere. Quasi identica. Non solo. Prima di cominciare ho evitato di rileggere il Lamento di Portnoy, per non lasciarmi influenzare (Carnovsky sta a Portnoy come Zuckerman sta a Roth), ma quando l’ho riaperto, una volta consegnato il racconto, ho scoperto che avevamo citato la stessa poesia di W.B. Yeats, Leda e il cigno. Piccole fatalità o, mi piace pensare, affinità elettive. O forse criptoplagi della mia mente, chi lo sa.

Un’altra sulla metanarrativa. Come dicono gli scrittori enfatici: con questo racconto chiudo una fase. Tempo fa, dopo un periodo di relativa crisi, ho cominciato a riflettere sulla scrittura, forse per chiarire a me stesso il senso di quello che facevo (anzi: che, per un motivo o per l’altro, non riuscivo a fare). Da questo è scaturito L’unico scrittore buono è quello morto, pubblicato da e/o l’anno scorso, uno zibaldone di racconti semiseri intorno a questo mestiere e al lavoro editoriale, ma anche un rito apotropaico, uno sfregio, una presa in giro (in primis, di me stesso), o una bella sudata nella quale smaltire tutte le tossine accumulate negli anni. (Forse, allo scrittore morto non poteva non subentrare lo scrittore fantasma.)

Ora, io non credo che la metanarrativa, per usare un gioco di parole, sia una narrativa a metà. Non sarò certo io a buttare a mare Se una notte d’inverno un viaggiatore di Italo Calvino, Even Cowgirls Get The Blues di Tom Robbins o Gli inquilini di Bernard Malamud (per non parlare di Storia di nessuno, di 8 e ½ o degli autoritratti di Rembrandt). Lungi da me paragonarmi a questi giganti, blablabla, dico solo che questo è un tema come un altro, che se lo spazio della narrazione è sconfinato – e lo è – allora può benissimo comprendere i narratori stessi, e che a me interessa prima ancora come lettore che come scrittore. Nell’introduzione al volume i due curatori lo dicono con parole molto più eloquenti.

Detto questo, c’è un punto oltre il quale è difficile spingersi e l’offerta di Paolo e Massimiliano mi ha dato l’opportunità ectoplasmatica per chiudere un discorso. Il mio prossimo libro – se Vonnegut lo vuole – parlerà d’altro.

Intanto, accattatevi Scrittori fantasma. Ci sono dentro delle belle cose.

Buona lettura.

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Le stanze degli scrittori

foto-3Quelli di Archivio Caltari mi hanno chiesto di buttare giù due righe sul posto dove scrivo.

La scrivania è stata acquistata almeno dieci anni fa presso una grossa multinazionale svedese dell’arredamento. Ci ho scritto tre libri: due sono stati pubblicati e l’altro no. Il destino di quest’ultimo Coso è uno dei miei crucci: essendo stato rifiutato da tutti gli editori (non l’ho proposto a quelli a pagamento, perché se avessero detto no anche loro non so come l’avrei presa), per qualche misteriosa ragione ho cominciato a dubitarne e quindi a modificarlo. Il Coso ha cambiato forma, si è espanso in direzioni inaspettate, a volte non mi rendo nemmeno conto di lavorare a quel libro. È la Torah di se stesso, la chiosa della chiosa.
Comunque dietro la scrivania c’è il letto. Intorno al computer, si notano:

(Continua a leggere sul sito.)

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