In un film di qualche anno fa il tipico protagonista nevrotico impersonato da Woody Allen sciorinava alla moglie in dolce attesa una serie di nomi per il primogenito. Tra questi, con orrore della consorte, figurava lo strambo “Thelonious”, che agli spettatori profani non disse granché, ma strappò un sorriso agli appassionati di musica jazz. Il riferimento era a Thelonious Monk, straordinario pianista e compositore, celebre non solo come inventore del bebop, insieme a Charlie Parker e a Dizzy Gillespie, ma anche per le tante eccentricità. Dotato di uno stile particolare, spesso e volentieri si alzava dal pianoforte e ballava sul palco, oppure gironzolava per il locale e attaccava bottone con gli sconosciuti. Con il tempo le stravaganze peggiorarono: venne buttato fuori dagli alberghi per avere dato in escandescenze, divenne sempre più scostante, conobbe l’onta della prigione e del ricovero in ospedale psichiatrico, tanto che ancora oggi realtà e leggenda si confondono.
Dopo un’infanzia di povertà, emigrato con la famiglia dal sud degli Stati Uniti a New York, Monk sentì un immediato richiamo verso la musica, nato dalla strada (“il jazz risuonava ovunque”) e favorito da un talento precoce. “Credo di non potergli insegnare niente,” ammise l’insegnante. “Presto ne saprà più di me.” Con ostinazione, cominciò a farsi un nome nel sottobosco musicale newyorchese, strimpellando ovunque. “Tu prova a dire un posto: io ci ho suonato.”
Già in quelle prime esibizioni si fece la fama di tipo stravagante, poi alimentata da un’aneddotica sterminata. Ai momenti di creatività febbrile (era capace di suonare per ore e ore), alternava crolli inesorabili durante i quali stava a letto per due giorni di fila. Euforia, depressione: non era facile districare la matassa di una vita dissoluta e individuare i sintomi di quello che oggi possiamo quasi certamente classificare come disturbo bipolare. Se già allora erano pochi gli psichiatri che capivano la natura di quel male, figurarsi i profani. In più, come tanti jazzisti, Monk beveva troppo e, pur senza mai diventare eroinomane, faceva uso di stupefacenti. Le stranezze vennero attribuite agli eccessi o rubricate sotto il facile binomio genio e sregolatezza.
Proprio all’ombra di questo stereotipo, cominciò la retorica intorno al suo mistero. Fin dal primo articolo su di lui, commentandone i tempi, un giornalista ne sottolineò la letargia: “Potrebbe benissimo essere la chiave per comprendere la sua personalità complessiva”. Quest’aura, che vendeva bene, fu amplificata dal lavoro di un’addetta stampa che lo dipinse come lunatico, sonnambulo, bizzarro. Da quel momento non si scollò più l’etichetta caricaturale di personaggio scontroso, con una vena di follia, decretandone una parte di successo ma anche banalizzandone il carattere. “Un personaggio da fumetto,” scrisse un critico. “Buono per i supplementi domenicali dei quotidiani sull’esotismo del jazz.” E il cui male passò in secondo piano. Di cosa era affetto l’autore di classici come “’Round Midnight”? Una recente, monumentale biografia (Robin D.G. Kelley, Thelonious Monk. Storia di un genio americano, traduzione di Marco Bertoli, Minimum Fax 2012, pp. 807, € 22) ne ricostruisce, insieme alla vicenda umana e musicale, l’iter medico e farmacologico.
I fatti. Un giorno, mentre guidava in pieno inverno, Monk slittò sul ghiaccio e andò a sbattere contro un’altra auto. Quando il guidatore gli chiese le generalità, lui rimase lì a fissare il vuoto. La scena muta continuò anche quando arrivò la polizia, tanto che alla fine l’agente lo portò in un ospedale psichiatrico, dove venne trattenuto per tre settimane e dimesso senza una diagnosi. Ci sarebbero voluti vent’anni, prima che i medici gli diagnosticassero una forma di bipolarismo. Come racconta il biografo: “La sindrome maniaco-depressiva include un’ampia gamma di disturbi dell’umore (…) Addormentarsi al pianoforte, fissare assorti lo sguardo nel vuoto, essere apparentemente incapaci di riconoscere le persone, sono tutti indici di ciclotimia, ossia di stato depressivo”. Ma il problema non fu solo lo stile di vita sregolato abbinato a un disturbo ereditato dal padre (che morì da solo in un istituto psichiatrico), il dramma fu soprattutto la cura.
Fin dall’inizio i medici gli somministrarono la cloropromazina, più nota con il nome commerciale di Thorazine, un antipsicotico per la schizofrenia di cui gli ospedali statali facevano largo uso per la rapidità dell’effetto e la convenienza. Gli effetti collaterali erano molto pesanti: vertigini, sonnolenza, rigidità muscolare. I pazienti avevano l’impressione di vivere con “una coperta gettata sul cervello”. Proprio per questo lo psichiatra che l’ebbe in cura, tale dottor Robert Freymann, lo accompagnò con “dosi di vitamina” per endovena che ne bilanciassero l’effetto sedativo. Nessuno dei pazienti sapeva che il ciarlatano tagliava le vitamine con le anfetamine, alimentando la dipendenza dagli stupefacenti.
Non si può sapere quale sia stato l’effetto di questa combinazione sulla malattia di Thelonious Monk, che intanto dopo i “non-anni” di insuccesso, come li chiamava, era finito sulla copertina di “Time”. Certo, l’estenuazione dovuta ai tanti concerti e agli eccessi esasperò una situazione latente. Le crisi divennero più frequenti, le prestazioni altalenanti e il confine tra il modo già ampiamente giocoso che aveva di stare sul palco e il momento in cui perdeva il controllo sempre più labile. Era diventato il “gran sacerdote del jazz”, un po’ guru e un po’ santone: imprevedibile, obliquo, sfuggente. Un idiot savant del quale passarono in secondo piano la dolcezza, la generosità, l’umorismo. Quando Monk smise di andare dal dottor Freymann e cominciò una dieta a base di succhi naturali, era troppo tardi. Gli venne diagnosticato uno squilibrio biochimico e cominciò una vana caccia al medico giusto. Non poteva venire lasciato solo (venne sorpreso a girare sotto la neve in pigiama), fu sottoposto a elettroshock e gli diagnosticarono una schizofrenia, aumentando il dosaggio di Thorazine fino a 2500 milligrammi (per una persona normale ne bastano 50).
Qualche volta ci giocava. Un giorno in Australia un fan cercò di scambiare qualche parola e, davanti alla sua indifferenza, sbottò: “Dica qualcosa, per favore!” Monk, serafico: “Qualcosa”. Altre ancora era semplicemente in stato catatonico. Nel 1972, durante l’ennesimo ricovero, gli venne somministrato il litio, un farmaco che rischia di generare tremore alle mani, apatia e passività. Di sicuro ne mostrò i segni per il resto della vita. Qualche concerto, sempre più rado, con un viavai dall’ospedale per correggere le ricette, fino al silenzio, rimasto in agguato fra una nota e l’altra. Visse gli ultimi anni chiuso in camera, a guardare la televisione in giacca e cravatta, senza quasi toccare il piano. Era stanco e, sebbene gli attacchi si fossero diradati, soffriva di incontinenza. Nel 1982 un ictus se lo portò via, o forse fu lui ad andarsene. Questione di punti di vista. In fondo, una volta, durante un concerto nel suo locale preferito, il Five Spot, se n’era andato tra un atto e l’altro ed era stato ripescato nei dintorni immobile a fissare la luna. “Ti sei perso?” gli fece il proprietario. “No,” rispose Monk. “È il Five Spot che s’è perso.”
(Questo articolo è uscito sulle pagine del “Corriere della Sera” del 2 settembre 2012.)
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