Archivi tag: L’unico scrittore buono è quello morto

“L’ufficio stampa da osteria.” Gianluca Morozzi, Il Fatto Quotidiano

C’è una parte della mia inesausta attività di ufficio stampa da osteria – attività molto prossima al volontariato – che si appoggia su qualcosa di simile alla pubblicità comparativa. Voglio dire: a un certo punto siamo lì, davanti a contenitori di alcool di varia natura e bicchieri pieni, e si parla di libri. E il mio interlocutore, magari, mi nomina un romanzo che lo ha illuminato per i suoi contenuti, la sua saggezza, le sue belle frasette profonde.

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“Vademecum-apologia della scrittura.” Marzia Fontana, Il Venerdì di Repubblica

Aforismi e brevi racconti sul mondo della letteratura e un incipit, «c’era uno scrittore», che si ripete. Fra situazioni improbabili (Tolstoj alla radio, Dante alle prese con l’editing) e nomi storpiati ma riconoscibilissimi, Rossari, scrittore e traduttore, mette a nudo miserie e nobiltà dei «colleghi» e compone un vademecum-apologia della scrittura.

(Nell’immagine un simpatico collage di copertine e parole.)

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“Se la letteratura diventa gioco.” Giorgio Vasta, Repubblica

Il campo letterario italiano è un luogo che sembra esistere ai limiti dell’indicibile. Per qualcuno è un inferno senza vie d’uscita, qualcun altro lo descrive come una zona depressa e deprimente, altri ancora obiettano che pur essendo lontano dal migliore dei mondi possibili è comunque un contesto all’interno del quale si lavora cercando di potenziare ciò che c’è di buono. Raccolte le testimonianze permane la sensazione che quella cosa – il punto nel quale confluisce l’esperienza di chi scrive, di chi decide cosa pubblicare e di chi leggerà ciò che è stato pubblicato – sia invincibilmente opaca. Cercare di comprenderla, continuare a interrogarla, vuol dire votarsi a un’esperienza di frustrazione.

Con L’unico scrittore buono è quello morto (edito da e/o) Marco Rossari sceglie di interrogare la cosa opaca mappandola ironicamente attraverso un libro che ha la forma di uno zibaldone, quasi a sottintendere che è nell’affastellarsi di testi eterogenei – ventidue racconti veri e propri, aforismi, bozzetti, pensieri improvvisi e acutissimi – che si può rendere conto della natura caotica e imprendibile del campo letterario; e che sorridere di ciò che accade – della sua deformazione rivelatrice – serve a produrre una conoscenza critica (e autocritica) dei fenomeni.

Dunque, senza mai cedere al gusto della battuta fine a se stessa ma invece sempre attento all’intensità letteraria della scrittura, Rossari descrive protocolli, definisce meccanismi e chiosa rituali; soprattutto mette in parodia i luoghi comuni che affollano tanto il discorso letterario quanto quello editoriale. E lo fa a trecentosessanta gradi, nella consapevolezza che a nutrire la cosa di cliché contribuiscono tutti, a partire da chi i libri li legge: «I lettori che “bisogna raccontare delle storie, le storie ci salveranno”. I lettori che “fra poco si mettono a scrivere i figli degli immigrati e vi spazzano via”. I lettori che “sei narcisista”. I lettori che “i noir raccontano meglio la realtà”». C’è poi chi i libri li pubblica (editori che non fanno mai squillare il telefono dell’autore e quando lo fanno risultano fraintendibili: «”Questa è roba buona”, mi ha detto, come lo spacciatore sotto casa»), chi li traduce (“Noi siamo come il filtro: lo si riempie di caffè e lo si svuota.”), così come chi li promuove, per esempio un intraprendente conduttore radiofonico che intervista il famoso Lev Nikolaevic a proposito di La sonata a Kreutzer: «…un romanzo quindi che parla di amore coniugale, di tradimenti, di ipocrisie. Ma facciamocelo dire dalla viva voce dall’autore, qui presente in studio… Buongiorno, Tolstoj!».

È però inevitabile che il soggetto centrale del testo di Rossari sia chi i libri li scrive. Dall’autore che pubblicato il primo libro comincia a sentire le voci e a riconoscerle ognuna nella sua consistenza nucleare fino a quando nel cranio non gli si raduna un frastuono inesauribile, a quello che avendo distrutto tutto ciò che non riusciva a farsi pubblicare sente di essere finalmente rientrato nel grembo dell’umano, per arrivare allo scrittore inchiodato al suo stile che in un bar, contro la parete del bagno, annota «Il giro di frase è un’impronta digitale » e poi, sempre più afflitto dall’impossibilità di essere altro, decide di concentrarsi sulla sua obliografia. La letteratura, dice sorridendo il libro di Marco Rossari, è un odio da amare, un amore da odiare; il campo letterario è lo spazio che ospita chi scrive chi pubblica e chi legge, ed è a sua volta oggetto di narrazioni: di qualcosa che serva a rendere, almeno per un momento, ciò che è opaco trasparente.

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“La grazia della letteratura.” Lucilla Noviello, Affari Italiani

C’è tutta la grazia della letteratura nel libro di Marco Rossari, L’unico scrittore buono è quello morto, e/o edizioni. Non perché il romanzo sia soave o perché sia leggiadro l’uso che l’autore fa del linguaggio o perché tali siano le storie, ma perché il concetto stesso di narrazione e del contenuto di questa sono la base e contemporaneamente lo scopo del libro. La letteratura che stende le pieghe dell’ignoto per renderle chiare, consola, diverte o semplicemente diventa qualcosa di concreto all’interno del panorama di ciò che esiste, si afferma senza bisogno di ausili; raggiunge il lettore. E se non lo fa immediatamente, lo farà poi.

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“L’ultima sugli autori.” Giuseppe De Marco, Il giudizio universale.

…E cosa c’è di meno attraente per un popolo di aspiranti-scrittori/svogliati-lettori di un libro (da leggere!) sulle frustrazioni dello scrivere? Nulla, verrebbe da dire. Se non fosse che così facendo si perderebbe la possibilità (tra le altre cose) di godersi questa deliziosa raccolta di racconti, battute, aforismi del giovane Marco Rossari (classe ’73 quindi, per i parametri nostrani, ancora suscettibile della consolante definizione anagrafica), che si presenta sugli scaffali con un titolo a effetto che ha tutto il sapore di una drastica dichiarazione di intenti: L’unico scrittore buono è quello morto

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“Romanzo picaresco.” Filippo La Porta, L’Espresso

“…’L’unico scrittore buono è quello morto’ di Marco Rossari (e/o), su aspiranti scrittori in cerca di lavoro (e di pubblicazione) riprende i toni da classico romanzo picaresco. Con intento da parodia, una storia si infila casualmente dentro l’altra.”

(continua a leggere la più ampia riflessione di Filippo La Porta sul “Romanzo Co.Co.Co” qui)

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“Una frustrazione tragicomica.” Un’intervista a cura di Carlotta Susca

…Non c’è nemmeno una riga che riporti un fatto realmente accaduto, ammesso e non concesso che qualcosa di scritto possa riprodurre fedelmente un fatto. Diciamo che il libro prende dei momenti di esasperazione e li porta all’estremo. La realtà editoriale è molto più noiosa: si scrive, si traduce, ci si lamenta. Di solito da soli (e nel terzo caso non è un buon segno). Nel libro, invece di parlare male di questo o quello, ho preferito creare delle situazioni paradossali che raccontano un vuoto, un’idea, una frustrazione tragicomica…

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“Lampi di storie.” Luigi Brasili, Lettera.

Storie brevi, brevissime, meno brevi, lampi di storie; racconti, aforismi, freddure, e molto altro. Questo libro contiene molti interessanti, e divertenti, spunti di riflessione, destinati in particolar modo a chi si occupa di scrittura, in maniera diretta o indiretta. Vi sono infatti in queste pagine, tra un racconto e un altro, o nel mezzo, diverse citazioni, colte e non, ad accompagnare passaggi che rasentano il puro esercizio di stile, freddure (ma neanche tanto, poiché, spesso, verissime; per esempio: “C’era uno scrittore che aveva letto un solo libro, il suo. E gli era bastato.”) e, nel contempo, ci sono suggestioni e piccole perle narrative; il tutto condito da una buona dose d’ironia, ch’è molto più sottile spesso di quanto venga mostrato a una lettura superficiale.

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“Un’indimenticabile galleria di personaggi.” Sergio Garufi, La vie en beige

Se è vero che la maggior parte della gente, entrando in libreria, decide se acquistare o meno un libro da ciò che legge nelle prime pagine, allora L’unico scrittore buono è quello morto, l’opera più recente di Marco Rossari, ha buone probabilità d’incontrare il favore del pubblico. All’inizio infatti c’è un piccolo e prezioso apologo sulla scrittura, intitolato “Dio e le carote”, in cui l’autore racconta con leggerezza due episodi della sua vita. Il primo è legato alla scuola. Pare che l’incubo di tutti gli studenti della scuola di Rossari fossero le carote, cucinate in modo immangiabile da una tizia soprannominata eloquentemente “la Lurida”. Angelino, un suo compagno di classe, fingeva di mangiarle e le metteva nella tasca del grembiule, per poi disfarsene una volta uscito. Un giorno il trucchetto fallì. Forse un delatore avvisò il preside, dal nome improbabile di Livorio Smricchio, e questi gli intimò di vuotare le tasche. Poi gli chiese “perché l’aveva fatto?”, e incassata la risposta (“per dispetto”) gli aveva mollato un manrovescio che lo aveva steso a terra.

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“Io non scrivo, io pubblico.” Francesco Berno, Pensieri di cartapesta

Si rimane sempre tendenzialmente interdetti davanti ad ogni centiloquio. L’unità di senso che si cerca di proiettare come esigenza propria del lettore cade nel vuoto, ultima violenza di un autore che taglia le righe, premette parentesi, accorpa il testo sulla destra di un margine inconsueto… È proprio vero: L’unico scrittore buono è quello morto.

La nuova fatica -si dice così, no?- di Marco Rossari è un divertente catalogo di piccole abiezioni e grandi sconfitte, intervallate dalle miserie quotidiane che la naturale trascuratezza dell’essere umano ci impone a cadenza regolare. E così troviamo Tolstoj alle prese con un irritante, ma non poi così improbabile, conduttore radiofonico, e senza soluzione di continuità ora siamo nel bel mezzo di uno sfortunato incontro erotico -l’unico possibile?- tra uno scrittore ed una sua lettrice.

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