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Tutto il mondo editoriale ne parla – IL

3244(Mi hanno chiesto di registrare le opinioni intorno al thriller erotico dell’anno e le ho trascritte per IL.)

Su un’arieggiata terrazza, nel corso di una serata qualsiasi, si parla del “libro dell’anno”, ossia di Maestra, di Lisa Hilton, edito Longanesi, traduzione di Giorgio Testa. Un giornalista – come un registratore dimenticato acceso o una booty call – si ritrova ad ascoltare le voci editoriali intorno al romanzo, venduto in 38 paesi del mondo e da poco lanciato in Italia.

Il gruppetto che trama

– L’ho letto e non sapevo bene cosa pensare. Il libro è discreto.
– Ma di che parla?
– Di una ragazza come tante, che lavora in una casa d’aste a Londra e, nonostante la preparazione, viene trattata come una stagista, nonché molestata. È giustamente incazzata. Arranca con i soldi e quindi arrotonda facendo la ballerina da Gstaad.
– Ah, Gstaad. Non è più quella di una volta.
– Infatti è un nightclub.
– Nemmeno i nightclub sono più quelli di una volta. Comunque, dicevi: ha una doppia vita.
– Tripla. Non le dispiacciono le orge. Adora scopare con gli sconosciuti.
– Pure io, per questo sono monogama da trent’anni.
– Vabbè. Quando viene licenziata, parte con un cliente del nightclub, ricco ma grasso, che l’adora e ama chiacchierare con lei senza fare altro. Vanno in Costa Azzurra.
– Ormai è in-vi-vi-bi-le.
– Infatti dopo avergli messo del sonnifero nel bicchiere per tenerlo a bada, il cuore non regge e se lo ritrova schiattato nel letto. Allora gli ruba i soldi e parte per l’Italia. Da lì comincia tutto un intrigo su quadri veri e falsi, speculatori finanziari, oligarchi uzbeki, yacht, Billionaire, sveltine in gommone, riviere di ogni genere, tutta una gigantesca vendetta per essere stata licenziata.
– Cioè, una specie di Mangia Scopa Odia?

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Koba il miracolato, Corriere

Già avanti negli anni, Iosif Vissarionovič Džugašvili – alias “Soso”, alias “Koba”, alias “Soselo” (il suo pseudonimo come poeta, ebbene sì, di stampo romantico), ma passato alla storia con il nomignolo di Stalin, ossia “acciaio” (forse scelto, curiosamente, per una storia galante con una fiamma che di cognome faceva Stal, oltre che per l’assonanza con Lenin) – autorizzò con riluttanza la pubblicazione di uno dei tanti libri di memorie che lo riguardavano. Era un’opera non certo eclatante, scritta dalla sorella della seconda moglie Nadja, ma risultava a suo modo audace perché in barba ai timori diffusi osava parlare del braccio rigido del dittatore.

Quello del braccino – evidente in alcune foto – era un difetto fisico che l’aveva accompagnato per tutta la vita e che, come tanti altri fatti, era ammantato di reticenze e ambiguità, ma ebbe senz’altro un peso nella definizione della sua personalità insieme a una serie di altre imperfezioni fisiche. Questi e altri misteri sono stati raccontati da Simon Sebag Montefiore in una biografia sulla sua giovinezza pubblicata nel 2010 da Longanesi (Il giovane Stalin, traduzione di Giovanni Ferrara degli Uberti, pp. 551, € 24) che ricostruisce la vita del dittatore sovietico dalla nascita fino all’avvento al potere. Per svelarli, lo storico inglese ha potuto avvalersi di numerosi archivi inattingibili ai precedenti biografi

Venuto al mondo in quel di Gori, in Georgia, il 6 dicembre del 1878, Stalin nacque con il piede palmato: il secondo e il terzo dito erano uniti. Niente di terribile, ma anche questa piccola malformazione rimase per lui una cosa di cui vergognarsi, tanto che quando si faceva visitare i piedi dai medici del Cremlino l’uomo più potente del mondo, almeno in termini di vita e di morte, si sentiva in dovere di nascondere il viso sotto una coperta.

Il neonato venne definito dalla madre Keke “debole, malaticcio, esile”. Anzi: “Se c’era in giro una malattia infettiva, si poteva star certi che lui sarebbe stato il primo a prendersela”. Avendo già perso due figli, i genitori – Keke e l’alcolista Beso, che tanta parte ebbe nell’instillare paura e violenza nel figlio – andarono in pellegrinaggio non lontano da casa ma trovarono i sacerdoti intenti a compiere un esorcismo su una bambina, sospesa sopra un burrone, in una scena da film horror. Il neonato Soso cominciò a frignare e a rabbrividire ma scampò ai metodi sbrigativi di quegli esorcisti da strapazzo. Quando compì cinque anni la città venne investita da un’epidemia di vaiolo che fece vittime soprattutto tra i più piccoli. I vicini di casa persero tre figli ma, se Stalin sopravvisse, la malattia gli segnò per la vita intera le mani e il volto, tanto che uno dei suo soprannomi fu “il Butterato”. Non dovette gradire, perché una volta arrivato al potere si fece incipriare le guance in modo massiccio e ritoccare le fotografie, non solo per fare sparire dal passato gli ex compagni ora invisi al regime, ma anche per addolcirsi l’aspetto.

A dieci anni venne investito da un calesse davanti alla scuola ecclesiastica di Gori dove avrebbe studiato e rischiò ancora la pelle. Forse fu una prova di coraggio oppure un caso, fatto sta che fu riportato a casa tramortito. Anche questa volta si riprese, ma l’incidente gli causò un danno permanente al braccio sinistro. Fu soprattutto questa menomazione, in aggiunta al piede e al viso (oltre alle voci sulla sua illegittimità), che contribuì a dargli un senso di diversità e d’inferiorità fisica: non avrebbe più potuto incarnare l’ideale del guerriero secondo il quale era cresciuto. Per inquadrare a dovere il rapporto con la forza fisica coltivato da Stalin bisogna pensare che crebbe in un ambientino per nulla facile, un vero proprio Far West caucasico dove la legge della strada temprava e corrompeva i giovani fin dalla più tenera età. Era stato allevato dalla madre come un cavaliere georgiano, ideale che lui trasformò in paladino della classe operaia. “Un uomo forte deve rimanere forte,” le scrisse quando lei era già vecchia. Invece, dopo essere stato investito, con suo grande imbarazzo non fu più in grado di ballare in modo appropriato o stringere alla vita una donna. Certo, la faccenda lo salvò dal servizio di leva nel corso della prima guerra mondiale, nelle cui trincee avrebbe potuto perdere la vita. Ma per lui la forma fisica rimase un nodo irrisolto, tanto che a fine guerra, quando incontrò di persona il più giovane e prestante maresciallo Tito, ebbe l’impulso ben poco diplomatico di abbracciarlo e sollevarlo di peso. “C’è ancora della forza in me!” tuonò davanti alle delegazioni allibite.

“Questo braccio danneggiato,” racconta Montefiore, “è variamente imputato a un incidente di slitta, a un difetto congenito, a un’infezione infantile, a una rissa per una donna (…), a un incidente causato da una carrozza e a un pestaggio del padre: tutti (eccettuato il difetto congenito) suggeriti dallo stesso Stalin.” Se intorno alla cosa c’è molta confusione è perché gli incidenti in realtà furono due. All’età di dodici anni un altro calesse (e resta davvero impressionante la capacità da parte del futuro dittatore di scampare a una morte che avrebbe cambiato il corso della storia, se non in meglio sicuramente non in peggio) lo travolse e le ruote gli passarono sopra le gambe. Il giovane svenne e fu portato all’ospedale di Tiflis. Per mesi saltò la scuola ma le gambe rimasero danneggiate, tanto che anche dopo essere guarito camminava con passo incerto e gli venne appioppato l’ennesimo nomignolo, “il Claudicante”.

Insomma, un miracolato. Un uomo capace di scampare alla cagionevolezza, al vaiolo, a due incidenti in carrozza, sospettoso e complessato, ma dotato di una volontà di ferro. Sarebbe assurdo, com’è ovvio, far risalire a queste infermità – a quel viso, a quel braccio, a quell’andatura e a quell’innocuo piede palmato – la psicotica gestione del potere che portò a milioni di morti, affamandone tanti altri. Iosif Vissarionovič Džugašvili non fu un Riccardo III. Ma è certo che questi disturbi ebbero un piccolo ruolo nell’affilare un carattere già diffidente e maligno, fragile e protervo allo stesso tempo. Malato, senz’altro, di potere e di violenza.

(Questo mio articolo è uscito qualche mese fa sul Corriere della Sera.)

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