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Mosca di sotto – The Towner

1375805461_Moscow Metro(Ho scritto una recensione-retroreportage di Mosca e del suo sottosuolo per The Towner.)

Nonostante fosse estate, del mio breve soggiorno moscovita ricordo soprattutto il buio, il sottofondo, il sottosuolo. Non tanto per imitazione dell’uomo dostoevskijano, il cui mal di fegato non avrei potuto eguagliare, quanto per una necessità sottoponente, una spinta a ritroso, un passo recondito inevitabile per aggirarsi nella capitale russa. In spregio ai romanzi dozzinali o ai film di spionaggio, che di norma ricorrono all’iconografia classica di una città gelida e innevata, avevo scelto quella stagione. In superficie faceva un caldo infernale, visto che agosto esiste anche lì, e non mi fidavo dei taxi informali. Prima della partenza ero stato messo in guardia riguardo alle auto disposte a portarti ovunque: a differenza di New York, dove i taxi non si fermano nemmeno a pagarli, a Mosca basta alzare un braccio e si ferma chiunque. In Italia mi avevano fatto il solito terrorismo: “Non hanno il tassametro”, “Ti portano chissà dove”, “Controlla i reni, quando scendi”. Mi avevano messo fin troppo in guardia contro la pericolosità generale di Mosca e invece tutto mi era parso tranquillo e la cosa più minacciosa, un po’ come nel centro di Milano, sembravano gli Hummer stupidi dai vetri oscurati, tuttavia, per iniziare, avevo scelto di ficcarmi in metropolitana. Fatto una prima volta, non riesci più a smettere. Come nota saggiamente l’autore del libretto che non mi accompagnò purtroppo in quel viaggio e che mi retrotrasporta ora scrivendo (Sparajurij, Viaggiatori nel freddo. Come sopravvivere all’inverno russo con la letteratura, Exorma, pp. 233, € 15,90), è inevitabile avere “l’impressione che la Russia abbia la tendenza a seppellire la propria bellezza e i suoi artefici. È accaduto coi poeti del Secolo d’argento, con l’arte astratta e con la letteratura del samizdat. E accade coi tesori che popolano il sottosuolo dove scorrono trecento chilometri di binari. La metropolitana di Mosca è il ‘Palazzo del Popolo’ – così la chiamano i cittadini – progettato e decorato dai migliori artisti dell’Unione Sovietica. Quarantaquattro delle quasi duecento stazioni sono considerate patrimonio culturale”.

E d’altra parte il tesoro è sempre lì che si trova: sotto terra.

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La lanterna magica di Molotov

ceb05a50082b07ed724ef7e0ed3c3a9f_w600_h_mw_mh_cs_cx_cyUna sera di non molti anni fa, durante una festicciola in un appartamento moscovita situato in vicolo Romanov – celebre luogo del centro città dove hanno vissuto stratificazioni diversissime di persone e personaggi, dalla nobiltà ai notabili di partito –, un imprenditore americano fa tintinnare davanti agli occhi stupefatti della studiosa Rachel Polonsky le chiavi di un appartamento al piano di sopra. In quella casa ha vissuta nientepopodimeno che Vjačeslav Michajlovič Skrjabin, meglio conosciuto con il nome di battaglia “Molotov” (dovuto alla tradizione nominalistica sovietica, sempre combattiva e ridicola: molot in russo vuol dire “martello”). Era il celebre e temuto numero due di Josif Stalin, firmatario nel 1937 di un numero di esecuzioni superiore anche a quello ratificato da Koba il Terribile: quarantatremila, una più una meno.

“Vuole andare a visitarla?”

Quando il giorno dopo la scrittrice entra nella casa, la trova quasi intatta, con i suoi oggetti preziosi, l’enorme biblioteca e soprattutto una lanterna magica, il dispositivo che anticipava il cinema e che proiettava immagini dipinte su un vetro. In quel meccanismo trova non solo una rievocazione del passato quasi fiabesca (una famiglia su uno scoglio in Crimea, uno sciamano dallo sguardo fisso), ma soprattutto l’emblema del libro che comincerà a scrivere. La lanterna magica di Molotov. Viaggio nella storia della Russia (Adelphi, traduzione di Valentina Parisi, pp. 434, € 28) è un saggio romanzesco o forse un romanzo saggistico, un libro di viaggi o forse di sogni (ma che importanza ha?), fatto dell’evanescenza impalpabile regalata alle immagini dal lume di una candela. In una prosa densa, sapiente, a volte fumosa come l’aria di una banja, a cui è bello abbandonarsi, la Polonsky ci guida attraverso le innumerevoli stratificazioni della terra russa, letterarie e politiche e geografiche.

Partendo dai libri di Molotov – per ogni libro, una storia e un luogo da esplorare (viene scartabellato perfino l’elenco telefonico Tutta Mosca del 1917) – l’autrice comincia a vagare con la mente e con il corpo. Insieme alla famiglia, muove dall’appartamento di vicolo Romanov e peregrina per l’evasivo fascino di Mosca, poi fuori città fino alle izbe di Lucino, quindi verso Novgorod e Rostov, dietro a storie di scrittori e scienziati, esuli e cosacchi, delineando un libro errabondo, affascinato dalla misteriosa anima russa, rilucente in un passato irrecuperabile. Anche per lei, come quando racconta della passione inventariale di un conte, tracciare queste storie sembra un’attività religiosa, simile alla pittura delle icone. “Il conte stava cercando l’accesso alla città morta degli antenati, così come un pittore di icone apre un portale sul mondo trascendente, calibrando il punto di vista, aggiungendo luce dorata.”

Un libro di libri, insomma, ma soprattutto di storie e di persone. O meglio di fantasmi. Sono tanti gli spettri che aleggiano ad ogni riga, trovando requie solo nella continuazione della lettura. C’è quello del bibliotecario Nikolaj Fëdorov, il “Socrate russo”, custode del Museo Rumjancev (prima che diventasse Biblioteca Lenin), che pare conoscesse a memoria tutti i volumi ed era convinto che la missione primaria dell’uomo sulla Terra fosse la resurrezione dei defunti (“Idea non così folle come sembra,” annotò Tolstoj, probabilmente dopo qualche vodka, o vangelo, di troppo). C’è quello di Walter Benjamin, accorso in Russia per vedere il luogo dove “tutto il fattuale è già teoria” e che in queste pagine si congeda dalla donna amata nell’immagine struggente di un gigante del pensiero in lacrime con in mano una valigia piena di vecchi giocattoli, acquistati per curiosità a una bancarella. C’è quello della fantomatica spia Sidney Reilly, complottista con tanto di parrucche e charme seduttivo, convinto di poter fermare la Rivoluzione d’Ottobre e costringere Lenin a sfilare con le braghe calate davanti al Cremlino (inutile a dirsi, il tentativo naufragò). C’è naturalmente lo spirito di Fëdor Dostoevskij, partito per la città di Staraja Russa per scrivere i Demonî, sorvegliato dalla polizia zarista e infastidito dall’umidità, che finisce per tornarci nel corso degli anni e scriverci anche i Fratelli Karamazov (Polonsky segue il tragitto compiuto da Mitja Karamazov nella fatidica notte del parricidio, in una sovrapposizione tra pagine e vita quasi vertiginosa). C’è il perseguitato Osip Mandel’štam con i suoi versi per Anna Achmatova, nitidi come rintocchi: “Conserva le mie parole per sempre, per il retrogusto di infelicità e di fumo”. Ci sono le povere ombre dei perseguitati politici – sequestrati, torturati, rinchiusi, uccisi – a partire da Trockij trasportato fuori casa in pantofole passando per le bellissime parole di Varlam Šalamov sull’innocenza dei lapis (“Nessuna condanna a morte è stata firmata semplicemente a matita”), fino alla schiera di scienziati – chimici, fisici, medici – che si sono visti la carriera rovinata perché costretti a piegare le proprie idee al materialismo dialettico.

Quando sul pavimento dell’appartamento da cui è iniziato tutto, Polonsky si ritrova a sfogliare l’enciclopedia sovietica, con le sue spaventose distorsioni, ecco che tra le pagine dedicate a Molotov stesso e alle città ribattezzate col suo nome, trova un capello bianco. Evidentemente ogni tanto, negli anni Ottanta, il vecchio apparatchik sopravvissuto a tutto quell’orrore amava rispecchiarsi in quelle pagine bugiarde.

Questa e altre storie infestano i libri.

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Una luce straordinaria. Dostoevskij e l’epilessia

“A un tratto, in mezzo alla tristezza, al buio e all’oppressione, il suo cervello sembrava accendersi di colpo, tendendo in un estremo impulso tutte le proprie energie vitali. In quell’attimo, che aveva la durata di un lampo, la sensazione della vita e il senso dell’autocoscienza sembravano decuplicare di forza. Il cuore e lo spirito si illuminavano di una luce straordinaria. Tutti i dubbi, tutte le ansie e le agitazioni sembravano quietarsi di colpo, si risolvevano in una calma suprema, piena di armonica e serena letizia, di speranza, di ragionevolezza e di penetrazione suprema.”

Oggi non sarà facile presentare queste parole a una persona affetta da epilessia e convincerla del lato estatico di un male che nel corso del tempo ha beneficiato di molte definizioni – variabili anche a seconda del tipo di crisi, però quasi a volerne sempre ribadire l’inafferrabilità: “assenza”, “grande e piccolo male”, “mal caduco”, “sindrome comiziale”, “male sacro” – ma che deve il suo nome ufficiale al termine greco per “attacco”, capace di suscitare più angoscia che pace, più insicurezza che incanto.

Eppure furono queste le parole che Fëdor Dostoevskij mise in bocca a uno dei suoi personaggi più celebri, il mite principe Myškin de L’idiota, per raccontare con tutta probabilità anche il proprio rapporto con un male che lo accompagnò per tutta una vita di tribolazioni e sulla cui natura sussistono ancora più ombre che luci. Di sicuro l’immagine evocata non è la norma. “Solo alcune persone affette da quella del lobo temporale, uno dei molti tipi di epilessia, provano sensazioni assimilabili a quella descritta,” racconta la professoressa Maria Paola Canevini, vicedirettore del centro epilessia dell’ospedale San Paolo di Milano e associato di neurologia all’Università di Milano. “E la cosa non è generalizzabile. Nella mia esperienza non è raro che la prima crisi convulsiva, magari preceduta da anni da episodi ‘minori’, si verifichi in occasione di un trauma importante come un lutto per un familiare.”

Infatti la prima ipotesi – avanzata dalla sorella e oggi confutata, nonostante resti ancora la più suggestiva – è che Dostoevskij ebbe il primo attacco di convulsioni intorno ai diciott’anni, appena saputo della morte del padre, un uomo dispotico e violento che, sempre secondo leggenda, venne assassinato dai propri servitori, esasperati dai soprusi. Di sicuro, non molti anni dopo la morte traumatica di questa figura amata e temuta – successiva alla perdita della madre per tisi – il giovane Dostoevskij venne arrestato come sovversivo e condannato a morte, per venire graziato di proposito solo pochi minuti prima dell’esecuzione e deportato in Siberia. Qui gli stenti e la paura contribuirono a esasperarne lo stato di salute e a rendergli evidente il malessere, di cui forse in precedenza aveva sottovalutato la gravità.

Si presume che in seguito alle prime nozze con Marija Dimitrevna – sempre nel tentativo, quasi agiografico, di far combaciare l’affioramento del male con gli snodi più rilevanti di una vita – Dostoevskij venne colpito da un fortissimo attacco che lo lasciò immobilizzato a letto per qualche giorno. In realtà pare fosse più dovuto allo champagne. “In assenza di terapia farmacologica le crisi si ripetono spontaneamente,” spiega la dottoressa Canevini. “Ma a volte si riscontrano dei fattori favorenti. E l’alcol in questo caso può aver giocato un ruolo nel peggiorare la frequenza delle crisi”.

In ogni caso nemmeno la lettera che l’autore del già acclamato Povera gente scrisse allo zar, per convincerlo a lasciarlo tornare a Pietroburgo da Tver’, dove si trovava ancora relegato sulla base della condanna precedente, fuga i dubbi. “A ogni attacco perdo la memoria, la capacità immaginativa, le forze fisiche e spirituali,” scriveva Dostoevskij. “L’esito (…) è l’indebolimento, la morte o la pazzia”. Sappiamo che da quel momento in poi ebbe invece avvio, anche per il contratto capestro che lo costrinse a una prolificità a tappe forzate, la sua più grande stagione creativa. Anzi, è accertato che con il passare degli anni gli attacchi si diradarono.

Le testimonianze a volte inattendibili lasciate da mogli, amici e medici curanti intorno a crisi, amnesie, accessi si rincorrono per tutta la vita e anche dopo, quando si provò a ricostruire un’anamnesi difficoltosa: un caso di allucinazione acustica all’età di sette anni, un’afasia passeggera, le assenze in luogo pubblico e i racconti degli attacchi notturni, i resoconti dell’amico Strakhov o dell’amica Kovalevskaya secondo i quali Dostoevskij paragonava il momento antecedente all’attacco alla visione paradisiaca di Maometto.

Di certo, al di là di qualche salasso, non si tentò mai alcuna cura e questo non era insolito per un’epoca che ancora tendeva a marchiare l’epilessia come un male dell’anima. Resta la tragica morte del figlio Aleksej di tre anni, avvenuta quando Dostoevskij ne aveva cinquantasei, dovuta a un attacco epilettico forse sintomatico di qualche infezione cerebrale, e della quale il padre comprensibilmente non seppe darsi pace.

Le nebbie non si dissiparono nemmeno quando, a visitare postumo questo illustre paziente, ci si mise per via indiretta un più che illustre “neurologo”, Sigmund Freud. Nel contestato saggio sul parricidio, pur mettendo le mani avanti sull’insufficienza delle fonti, il padre della psicoanalisi bollò l’epilessia di Dostoevskij come un semplice sintomo di nevrosi e la riclassificò come istero-epilessia, attribuibile a un complesso edipico. Forse piccato per una battuta del libro che definiva la psicologia “un’arma a doppio taglio”, arrivò a scrivere che la “simpatia di Dostoevskij per il criminale è in effetti senza limiti, supera assai i confini della compassione alla quale l’infelice ha diritto, ricorda l’orrore sacro con cui l’antichità guardava all’epilettico e al malato di mente”. Di conseguenza – era la conclusione, forse troppo disinvolta – questa compassione doveva essere fondata sui medesimi impulsi assassini.

Gli ultimi studi, per quanto sempre più disorientati dalla molteplicità delle fonti e delle analisi, tendono a diagnosticare un’epilessia del lobo temporale mesiale sinistro, probabilmente esordita intorno al 1846, quindi al tempo dell’arresto. Resta soprattutto che l’epilessia rivestì un ruolo tanto cruciale nella vita di Dostoevskij da attribuirla a diversi personaggi tra racconti e romanzi, fra cui due figure-chiave, ossia l’ateo suicida Kirillov dei Demonî e, nell’ultimo capolavoro, il figlio illegittimo di Fëdor Karamazov, lo Smerdjakov che simula un attacco per difendersi dall’accusa di omicidio. Soprattutto la incarnò il principe Myškin, al quale fece raccontare la cosiddetta “aura”, il momento estatico che precede l’attacco vero e proprio, arrecando al paziente una visione di grande bellezza.

“Che importa se è malattia?” diceva il suo personaggio più straziante. “Che importa se questa tensione è anormale, quando il suo stesso risultato, l’attimo delle supreme percezioni, ricordato e analizzato in un momento di lucidità, con l’effetto che esso produce, risulta sommamente armonico e sublime, comunicandomi un senso mai provato prima né immaginato di pienezza, di equilibrio, di pace e di fusione, in uno slancio di preghiera con la più alta sintesi della vita?”

Non solo. È singolare notare come l’immagine stessa di questo male si sposi alla poetica di un’opera complessiva, in cui i dilemmi morali e psicologici, la crisi dei valori, le tensioni ideali, il tema della scissione e gli afflati mistici scorrono attraverso un quadro vivido, il cosiddetto “romanzo polifonico”, come un fiume carsico – una corrente sotterranea o una scarica elettrica, appunto – per emergere tutto a un tratto dal sottosuolo, inaspettati e potenti, emblema di una psiche tormentata, ma anche di una delle menti più grandi in tutta la storia della letteratura.

(Questo articolo è uscito qualche tempo fa sulle pagine del Corriere della Sera.)

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