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Write drunk, edit sober?

hemingway6(La Lettura, l’inserto letterario del Corriere della Sera, ha chiesto ad Alessandro Beretta e a me di scrivere un pezzo pro e uno contro il binomio Scrittura&Alcol. Il risultato è stata una singolar tenzone, finita on-line. Ecco l’inizio del mio pezzo.)

In una delle sue più divertenti poesie Charles Bukowski, nume tutelare di ogni santo bevitore che abbia provato a misurarsi con la pagina, spiattella una serie di raccomandazioni su come diventare un grande scrittore e, tra le altre cose, invita a trincare birra. Moltissima birra. Detto fatto, a ogni ristampa una schiera di aspiranti poeti, dopo essersi scolata la suddetta silloge e avere ignorato l’esortazione del maestro a sorbirsi anche qualche riga almeno di Dostoevskij o del norvegese Knut Hamsun, decide che una doppio malto possa essere il primo gradino per trovare l’ispirazione. Problema: si comincia così e si finisce nel tunnel dell’autopubblicazione (per non parlare della pancia gonfia).

Forse l’ubriacone e lo scrittore hanno una sola cosa in comune: l’esagerazione. Il primo è incline a deformare senza remore e il secondo ammanta la bevuta di connotazioni leggendarie. Non a caso un’autorità in entrambi i campi come Dylan Thomas dopo la sua inconsapevole ultima serata di bisboccia sul pianeta si vantò di avere bevuto diciotto whisky. Post mortem, il barista lo smentì riducendoli a otto.

Forzature a parte, gli elogi dell’alcol come fermento creativo non si contano: da Lorenzo Da Ponte («viva il buon vino/ sostegno e gloria dell’umanità») a F. Scott Fitzgerald («Il troppo stroppia, ma troppo champagne è il giusto»), passando per l’immancabile Baudelaire («Inebriatevi senza tregua: di vino, di poesia o di virtù»), l’equivalenza tra ebbrezza e inventiva è diventata un luogo comune, pericoloso ancora più per le lettere che per il fegato.

Ma da dove nasce questo fraintendimento?

Continua a leggere entrambi i pezzi sul sito della Lettura.

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Don’t Shoot the Translator

lasinoeilbue

(Questo articolo è uscito sul Corriere della Sera qualche mese fa.)

Nel Settecento un predicatore londinese terrorizzava i fedeli dal pulpito con queste parole: “Non dovete mai dimenticare che questo libro…” e a quel punto sollevava la Bibbia di re Giacomo, “non è la Bibbia, ma una traduzione della Bibbia”. Parole sante, è il caso di dirlo. Anche se il pistolotto deve avere illuminato troppi cuori. Ormai è una litania, un tormentone. “Com’è il romanzo?” sonda l’incauto. “Così, così”, sermoneggia l’interlocutore, “sarà colpa della traduzione”.

Può essere un critico, un blogger o una brava persona, non importa: il malanimo verso un libro — magari mediocre o, peggio, grandiosamente complesso — si concentrerà sull’operato dell’oscuro mestierante. La sentenza è equiparabile a luoghi comuni come “non esistono più le mezze stagioni” o “tutti i politici rubano”. O ancora, arcanamente connesso al discorso, “i traduttori sono sottopagati”. E allora, verrebbe voglia di chiosare, parafrasando il detto da balera, pardon saloon: “Don’t shoot the translator”. Anche perché generazioni di intellettuali si sono formati su versioni raffazzonate di classici moderni, variazioni di capolavori poetici, avventurose trasposizioni di saggi.

In libreria aleggiano ancora lo Shakespeare di seppia curato da Montale, i grandi americani con i paragrafi pressoché riassunti da Elio Vittorini e i memorabili svarioni perpetrati ai danni di “Furore” di John Steinbeck, a partire dal fatto che — anche per la censura fascista — in italiano la tirata sul fantasma di Tom Joad (che ha ispirato prima una canzone di Woody Guthrie e poi una di Bruce Springsteen) è puf svanita. Non solo, a nessuno è mai passato per la testa che Norman Mailer intendesse il titolo del suo capolavoro “The Naked and The Dead”, ebbene sì, al plurale. E infine da anni la povera impiegata di T.S. Eliot torna a casa sulle pagine della “Waste Land” e stende alla finestra le sue “combinazioni” (“combinations”, in originale, che nelle innumerevoli traduzioni nessuno ha avuto il coraggio di restituire, almeno una volta, con “sottoveste”). Per carità, niente accanimento: si trattava in gran parte di traduzioni pionieristiche, storicizzabili, idiosincratiche (eppure quanti genocidi linguistici sono stati compiuti in nome delle trasposizioni “d’autore”!). Ma se la forza dell’Ottocento russo è sopravvissuta alle rese dal francese, in un’epoca viceversa di eccellenti traduzioni potrà la nostra serenità restare tale davanti a una svista, a un intoppo, a una zeppa?

E invece capita di ricevere telefonate notturne dall’amico prostrato: “A pag. 322, nella scena della serra, ho confuso urtica dioica con urtica urens, gli anobiiani non me lo perdoneranno mai”. Intendiamoci, è bene tendere alla perfezione, ma accantoniamo le isterie. Si racconta che perfino il bue e l’asinello nascano da un apocrifo. Maria depone il bambino nella mangiatoia e la profezia di Abacuc si adempisce: “Ti farai conoscere in mezzo a due animali”. Il testo greco della Bibbia, che recitava “in mezzo a due età (“zoòn”), aveva mandato in confusione il traduttore latino, il quale lo prese per zòon (“animali”). Se ci siamo abituati ad avere nel presepe una fantasmatica accoppiata animale imputabile a uno strafalcione, riusciremo ad avere misericordia per il fidus interpres alle prese con un giallo?

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