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Let’s call the whole thing translation

03c61fa6031b9df2b6257af3b1375856(Mariateresa Pazienza ha avuto la bontà di farmi qualche domanda per il sito Casa di Ringhiera. Qui tutta l’intervista.)

(…) Come ho detto, bisogna venire attratti da quella zona di confine tra le lingue: terra di nessuno, nebulosa impalpabile, passaggio glottologico, momento psichico, idioletto cosmico, gioco del telegrafo, mettila come ti pare, let’s call the whole thing translation. Poi, da un punto di vista pratico, bisogna studiare, avere orecchio, avere cura, sentire le parole, correggere bozze, rivedere traduzioni, chiedere una prova di traduzione, superarla, affrontare un testo, perseverare, tradurre molto (anche con mestiere, non solo con passione), imparare dagli errori (che sono sempre tanti), arrivare al punto in cui ti puoi definire un traduttore passabile, e comunque resti sempre un dilettante: ti offrono Nabokov e ti metti a piangere perché sei un miserabile (e se leggi come Nabokov ha tradotto l’Onegin vedi che perfino lui avrebbe dovuto piangere: immagine che mi pare emblematica per definire questo lavoro: annichilisce perfino l’autore di Lolita). Ad ogni modo non diventi mai un traduttore e basta: fai sempre un mucchio di altre cose. (…)

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“Un Woody Allen presbite nella Milano di Gadda.” Daniela Ranieri, Panorama.it

Fossi stato russo, avrei detto che eri il Mastroianni russo.

È la mia più grande ambizione, ma non so da quale dei due elementi cominciare. Aspetta, forse Carmelo Bene era il Majakovskij italiano, si potrebbe inventare una teoria della metempsicosi infranazionaletteraria, una specie di reincarnazione pseudocasuale tra artisti e affini. Uno spettro s’aggira per l’Europa e vuole la sua fetta di artisticità attraverso una definizione banalizzante.

(Continua a leggere l’intervista sul blog di Daniela Ranieri.)

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