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Non sono Percival Everett

UnknownEsce in questi giorni per Nutrimenti un nuovo libro di Percival Everett, si intitola Sospetto e appartiene alla vena più classica e lineare di questo straordinario scrittore (il quale, nel frattempo, come il vulcano di cui parla Giorgio Vasta in questa recensione uscita su “Repubblica”, ne ha già partorito un altro). Sono felice che questa nuova traduzione sia firmata, oltre che da Federica Bonfanti, da un amico scrittore come Paolo Cognetti.

Ho tradotto sei libri di Percival Everett (i miei preferiti restano Glifo e Ferito, più Il paese di Dio, che tanto ha in comune con Django Unchained) e credo di non essermi mai trovato così in sintonia con un autore. Mi piace la sua imprevedibilità, il suo umorismo paradossale, la sua ironia sorniona, la profonda umanità dei suoi personaggi, la prosa sempre in bilico tra una pulsione sperimentale e una più classica. Spero che questo libro abbia la fortuna che merita.

Qui si trova un mio vecchio pezzo intorno alla sua opera pubblicato da “Minima et Moralia”. E qui qualche appunto sulla traduzione di Glifo uscito per “La nota del traduttore”. Per tutto il lavoro su questo autore devo anche ringraziare Leonardo G. Luccone, che all’epoca dirigeva la collana “Greenwich” di Nutrimenti. Mi fermo qua, anche in omaggio a uno scrittore che – sublime paradosso, considerata la sua prolificità – in pubblico ha fatto della laconicità un marchio inconfondibile. Non posso dimenticare l’eterna domanda che un professorone di letteratura americana gli fece durante una presentazione, alla quale dopo un momento di riflessione Percival rispose con un lapidario: “I’m just a cowboy”.

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“Se la letteratura diventa gioco.” Giorgio Vasta, Repubblica

Il campo letterario italiano è un luogo che sembra esistere ai limiti dell’indicibile. Per qualcuno è un inferno senza vie d’uscita, qualcun altro lo descrive come una zona depressa e deprimente, altri ancora obiettano che pur essendo lontano dal migliore dei mondi possibili è comunque un contesto all’interno del quale si lavora cercando di potenziare ciò che c’è di buono. Raccolte le testimonianze permane la sensazione che quella cosa – il punto nel quale confluisce l’esperienza di chi scrive, di chi decide cosa pubblicare e di chi leggerà ciò che è stato pubblicato – sia invincibilmente opaca. Cercare di comprenderla, continuare a interrogarla, vuol dire votarsi a un’esperienza di frustrazione.

Con L’unico scrittore buono è quello morto (edito da e/o) Marco Rossari sceglie di interrogare la cosa opaca mappandola ironicamente attraverso un libro che ha la forma di uno zibaldone, quasi a sottintendere che è nell’affastellarsi di testi eterogenei – ventidue racconti veri e propri, aforismi, bozzetti, pensieri improvvisi e acutissimi – che si può rendere conto della natura caotica e imprendibile del campo letterario; e che sorridere di ciò che accade – della sua deformazione rivelatrice – serve a produrre una conoscenza critica (e autocritica) dei fenomeni.

Dunque, senza mai cedere al gusto della battuta fine a se stessa ma invece sempre attento all’intensità letteraria della scrittura, Rossari descrive protocolli, definisce meccanismi e chiosa rituali; soprattutto mette in parodia i luoghi comuni che affollano tanto il discorso letterario quanto quello editoriale. E lo fa a trecentosessanta gradi, nella consapevolezza che a nutrire la cosa di cliché contribuiscono tutti, a partire da chi i libri li legge: «I lettori che “bisogna raccontare delle storie, le storie ci salveranno”. I lettori che “fra poco si mettono a scrivere i figli degli immigrati e vi spazzano via”. I lettori che “sei narcisista”. I lettori che “i noir raccontano meglio la realtà”». C’è poi chi i libri li pubblica (editori che non fanno mai squillare il telefono dell’autore e quando lo fanno risultano fraintendibili: «”Questa è roba buona”, mi ha detto, come lo spacciatore sotto casa»), chi li traduce (“Noi siamo come il filtro: lo si riempie di caffè e lo si svuota.”), così come chi li promuove, per esempio un intraprendente conduttore radiofonico che intervista il famoso Lev Nikolaevic a proposito di La sonata a Kreutzer: «…un romanzo quindi che parla di amore coniugale, di tradimenti, di ipocrisie. Ma facciamocelo dire dalla viva voce dall’autore, qui presente in studio… Buongiorno, Tolstoj!».

È però inevitabile che il soggetto centrale del testo di Rossari sia chi i libri li scrive. Dall’autore che pubblicato il primo libro comincia a sentire le voci e a riconoscerle ognuna nella sua consistenza nucleare fino a quando nel cranio non gli si raduna un frastuono inesauribile, a quello che avendo distrutto tutto ciò che non riusciva a farsi pubblicare sente di essere finalmente rientrato nel grembo dell’umano, per arrivare allo scrittore inchiodato al suo stile che in un bar, contro la parete del bagno, annota «Il giro di frase è un’impronta digitale » e poi, sempre più afflitto dall’impossibilità di essere altro, decide di concentrarsi sulla sua obliografia. La letteratura, dice sorridendo il libro di Marco Rossari, è un odio da amare, un amore da odiare; il campo letterario è lo spazio che ospita chi scrive chi pubblica e chi legge, ed è a sua volta oggetto di narrazioni: di qualcosa che serva a rendere, almeno per un momento, ciò che è opaco trasparente.

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