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Nel cuore della notte

Una decina d’anni fa ho provato a scrivere un racconto diverso rispetto alle cose che facevo di solito. C’era una voce che mi ronzava in testa da un po’, un tizio sdraiato in una notte d’estate che ascolta ossessivamente una sola canzone (che poi non è nemmeno una canzone). Ma ascolta quella voce, la voce di Harry Dean Stanton. E pensa e ricorda e pensa a un fatto terribile che gli è accaduto. Ma cosa? Ancora non lo sapevo. Ho scritto il racconto e l’ho anche letto in un bar. Un amico mi ha detto che non era male e che avrei dovuto scrivere altre cose simili. Anche a me pareva buono quel tono, più libero e più poetico, ma vatti a fidare degli amici e pure di te stesso.

È passato del tempo e ho scritto altre cose, sono naufragato in un romanzo, ho raccolto i cocci, ho tradotto un mucchio di roba, ho scritto un altro romanzo (Le cento vite di Nemesio), che questa volta è uscito ed è stata una bella avventura. Proprio mentre scrivevo quest’ultima cosa, che era comica e molto – diciamo – rigida (scaletta ferrea: l’umorismo è disciplina), ho cominciato a risentire quella voce, calda e buia e dolente. Un giorno ho avuto un’idea e all’improvviso una struttura si è aperta nel mio vacuo cranio. Al momento mi sembrava allettante, ma temevo che fosse una scusa per non finire il romanzo a cui stavo lavorando, come quando preferiresti leggere Hegel piuttosto che continuare a studiare Hegel. Così l’ho lasciata lì.

Poi ho avuto l’occasione di passare un mese a Londra, per varie ragioni. La voce era lì. Sapevo di non voler scrivere un altro libro con lo stile di quello precedente, volevo pagine più libere e più risuonanti, più ipnotiche e anche più rischiose. Volevo che fosse uno stile alto, caldissimo: una nota tenuta. Come il detestabile scrittore da cliché, tutti i pomeriggi andavo al pub e senza connettermi, senza un cavo d’alimentazione, scrivevo finché duravano la batteria e la lucidità. Poi me ne andavo. Alla mattina rimettevo in ordine quello che avevo scritto. Alla fine del mese il libro c’era, e lì è rimasto, di tanto in tanto riscritto e ripulito e accudito e guardato con sospetto, perché nel frattempo l’altro libro continuava a viaggiare. Infine è piaciuto a Einaudi.

Di che cosa parla, allora? Di una coppia, di amore, di morte, di poesia, di politica. È una storia. O forse è solo una voce nel buio. Sedetevi ad ascoltarla, se vi va. Nel cuore della notte.

Qui c’è la pagina sul sito dell’editore.

Qui c’è l’incipit letto da me.

Qui c’è Harry Dean Stanton che parla, l’inizio di tutto.

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Racconti da ridere

Ho curato per Einaudi un’antologia di racconti umoristici. Si intitola Racconti da ridere e, oltre a una mia introduzione, ci sono  racconti di P.G. Wodehouse, Achille Campanile, Dorothy Parker, Alan Bennett, James Thurber, Stefano Benni, Irvine Welsh, David Sedaris, Nora Ephron, Martin Amis, Tiziano Scarpa, Charles Bukowski, Umberto Eco, Margaret Atwood (inedito), Mark Twain, Michele Mari, Slawomir Mrozek, Anton Čechov, Nikolaj Gogol’, Jørn Riel, Joe R. Lansdale, Donald Barthelme, Heinrich Böll.

Qui la pagina sul sito dell’editore.

Qui un estratto dell’introduzione uscito per il magazine del Sole 24 Ore.

Qui un’intervista su Letteratitudine.

Have fun.

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Il circolo Pickwick

È da poco uscita per Einaudi la mia traduzione del Circolo Pickwick, capolavoro di Charles Dickens che mi ha tenuto compagnia per parecchi mesi. È stata un’avventura fantastica sulle orme (e sulle spalle) di un gigante e di una combriccola scombinata a cui è andato tutto il mio affetto prima di lettore e poi di traduttore, se non di amico. È una delle letture più spumeggianti del mondo e spero di aver reso onore alla storia che da giovane mi aveva avvinto.

Qui la pagina relativa al libro sul sito dell’editore e qui un mio articolo sulle tracce del suo autore, uscito per Rivista Studio.

Goodbye, Pickwick! (Sniff.)

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Letteratura metropolitana – Rivista Studio

m_metronovela_naming_270x413Stai per cominciare a leggere il nuovo libro di Stefano Bartezzaghi. Parla della metropolitana. E di Milano. Non era difficile arrivarci (ma il tragitto non è mai lineare come sembra): si capiva dalla M del titolo, dalla copertina illustrata con una striscia superiore, grigia e piovosa, dove si distingue il profilo del cosiddetto cavall stracch di piazza Missori, e una inferiore, rossa e colorata, con un campionario di tipi umani in attesa del treno sulla banchina della linea 1. Come nella più banale delle trovate metanarrative, stai perfino scendendo i gradini della rossa, fermata Lima, con il libro infilato nella sacca a tracolla, perché – ulteriore cornice alla cornice – stai correndo al rinfresco dato dalla rivista che ospiterà la tua recensione. Potresti leggerlo ad alta voce di vagone in vagone, come in quei magnifici inseguimenti istericamente flemmatici sull’underground di New York. Oppure spargerne le pagine in giro, lasciare che il libro si legga da solo e che tu scorga tutto attraverso le vetrate ingiallite, come in quel vecchio mugugno-canzone di Tom Waits, 9th and Hennepin, dove lui racconta la vita privata e pubblica di una città, per poi liquidare tutta la faccenda con un colpo di scena finale: «And I’ve seen it all… And I’ve seen it all / Through the yellow windows of the evening train…».

(Continua a leggere su Rivista Studio)

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Inseguire parole – IL

5928706_343484Tradurre significa passare un mucchio di tempo da soli. Schivo al limite dell’autismo, nascosto dietro le parole altrui, strapazzato o peggio ignorato dai recensori, il traduttore soffre un destino dolorosamente analogo a quello delle spie e cioè di venire notato solo quando sbaglia, ma senza licenza d’uccidere o Bond girls (al Martini si può ovviare). Ma chi è davvero la figura che, se va male, viene confusa con quella dell’interprete e, se va bene, coincide ormai con il personaggio santo e martire di Luciano Bianciardi nella Vita agra? E perché, al di là del dato lavorativo, si comincia a tradurre un testo? E davvero parliamo solo di volgere in un’altra lingua una serie di parole? Queste sono alcune delle domande a cui Massimo Bocchiola cerca di dare qualche risposta in un nuovo saggio, Mai più come ti ho visto, ambiziosamente sottotitolato Gli occhi del traduttore e il tempo (Einaudi Stile Libero). Non è uno dei tanti libercoli intorno alle gioie e alle insidie di un mestiere, ma qualcosa di più.

(Continua a leggere sul sito del Sole24Ore.)

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Martin Amis e il male – IL

Martin-Amis-Zone-of-InterestIn un racconto di J. M. Coetzee l’ineffabile alter ego dell’autore, la scrittrice Elizabeth Costello, viene chiamata a dire la sua sul “problema del male” e, davanti a un collega che ha raccontato i campi di concentramento con eccessiva disinvoltura, si domanda se non sia pericoloso «scendere nei più oscuri territori dell’anima», se dire l’indicibile non sia soltanto un peccato di hybris ma anche di vanità, da cui non si esce indenni. «Osceni: non solo gli atti dei carnefici di Hitler, non solo gli atti del boia, ma anche le pagine del libro (…). Scene che non possono reggere la luce del sole, dalle quali bisognerebbe difendere gli occhi delle fanciulle e dei bambini».

È un tema che riecheggia quello più ampio scaturito dalle pagine di Se questo è un uomo. Primo Levi, assetato, allunga una mano fuori dalla baracca per staccare un ghiacciolo e una guardia glielo strappa di mano. «Perché?», gli chiede. «Qui non c’è un perché», risponde quello. Se il discorso intorno al Male nazista (o al “mistero Hitler”, com’è stato intitolato in Italia un magnifico studio di Ron Rosenbaum sull’intera questione) resta un quesito irrisolvibile per chi è sopravvissuto ai campi, maggiori dubbi suscita negli scrittori che vi si avventurano soltanto grazie allo studio e all’immaginazione. Non a caso Vercors divise il suo racconto Le armi della notte, che racconta di un superstite dei campi di concentramento, in due parti denominate “Orfeo” e “Euridice”: è dato girarsi e raccontare l’inferno? Non soltanto: è morale scegliere di inoltrarsi “in quelle tenebre”, per citare il titolo di un celebre libro di Gitta Sereny sul comandante di Treblinka? E come va fatto?

(Continua a leggere sul sito del Sole24Ore.)

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La scrittura bighellona di Teju Cole – IL

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(Questo articolo è uscito su IL, supplemento mensile al Sole24Ore.)

Prendendo in prestito un aforisma di Archiloco, Isaiah Berlin scrisse che gli scrittori si dividono in due categorie: quelli riccio e quelli volpe. In sostanza, quelli che cullano una sola idea fissa da rimuginare in ogni libro e quelli curiosi che invece cambiano di continuo. La sintesi era che la volpe sa tante cose, ma il riccio ne sa una grande. In fondo non era un giudizio qualitativo e di sicuro non esaurisce la gamma offerta dalle lettere, però aiuta a mettere a fuoco un approccio alla scrittura e al mondo. La ripartizione torna in mente davanti al lavoro di uno scrittore come Teju Cole.

Di origine africana, Cole è nato negli Stati Uniti e cresciuto in Nigeria. Ha studiato psicologia e ha esordito nella narrativa con un libro intitolato Città aperta, pubblicato da Einaudi nella bella traduzione di Gioia Guerzoni, dove raccontava la vita riflessiva di Julius, emigrato africano di stanza negli Stati Uniti, padre nigeriano e madre tedesca, che studia psichiatria e bighellona per la New York post-11 settembre, ponderando identità, guerra al terrorismo, infanzia e Storia. In debito con le divagazioni di Sebald, il romanzo era un tentativo di flânerie metropolitana e seguiva (o meglio: si perdeva dietro) un senso di sradicamento, sbandando in tante piccole meditazioni digressive. Come il funambolo che nel 1974 attraversò le Torri, Città aperta oscillava tra romanzo e saggio, tra elucubrazione filosofica e istantanea poetica.

(Continua a leggere sul sito del Sole24Ore.)

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Un pugno di uomini sfocati

foto2g-1024(Qualche tempo fa ho pubblicato sul Primo amore questa recensione, che oggi in rete non si trova più. Ho pensato di riproporla, non tanto per l’anniversario incombente della Grande Guerra, quanto per la qualità del libro.)

Ci sono libri che si affacciano senza clamore, se ne stanno lì acquattati in un angolo della libreria ed escono di scena senza avere sollevato polemiche, senza pretese generazionali e senza visioni del mondo (anche se, in fondo in fondo, un libro – per quanto modesto – una visione del mondo ce l’ha in ogni caso). Il loro grande difetto, che è naturalmente un pregio, è l’apparente semplicità, la dimessa esplorazione di un tema poco all’ordine del giorno, la meticolosa analisi di una vicenda passata. Erano mesi che I fogli del capitano Michel di Claudio Rigon (Einaudi 2009, pp. 199) esercitava, proprio per questa sua renitenza, una forte attrazione su di me. E l’attesa non è andata delusa.

“Io di professione faccio l’insegnante, di fisica, alle scuole superiori. È il mio mestiere. Oltre a questo faccio fotografie.” Nell’incipit c’è già tutta l’acribia di questo esploratore curioso, classe ’48, nato a Vicenza, che si aggira nel corso degli anni sull’Altipiano di Asiago, per calcare le orme di chi vi si è stato catapultato nella grande guerra, rinvenirne le tracce e conservarne la memoria. Un giorno, mentre svolge una ricerca bibliografica al Museo del Risorgimento, scopre dapprima una serie di piccole fotografie appartenenti alla “Donazione Michel” e quindi un fascio di documenti, tra i quali duecentocinquantasette fonogrammi, piccoli dispacci sul fronte tra un comando e l’altro, risalenti all’estate del 1916.

Da lì, un po’ detective e un po’ storico, Rigon inizia a riannodare i fili della vicenda del battaglione Argentera sull’Ortigara, ordinando cronologicamente i fonogrammi – vere e proprie tessere di un puzzle – e ricostruendo con l’operosità di una staffetta attraverso frequenti le sue escursioni in loco il contesto topografico e quello bibliografico (da Gadda a Lussu, fino alle pubblicazioni di nicchia) dal quale sono usciti. È così che restituisce questi laconici messaggi in bottiglia alla loro vicenda prima storica e poi umana. I nomi dei soldati, il dramma del gelo e della paura, le reazioni coraggiose e meschine, i piccoli furti e le diserzioni: tutto emerge dalla nebbia del passato gradualmente, senza enfasi, con una misura toccante.

Se il poeta poteva trasfigurare liricamente il conflitto (Clemente Rebora, per pescarne uno fra i tanti: “… Tra melma e sangue / Tronco senza gambe / E il tuo lamento ancora, / Pietà di noi rimasti / A rantolarci e non ha fine l’ora…”), il memorialista oppone una prosa asciutta, ma non per questo meno efficace. Anzi. Provare a tornare in quelle trincee con lo sguardo del superstite sarebbe un imperdonabile errore retorico (che pure in molti commettono, nella foga di colmare la distanza che li separa dall’orrore), così quando Rigon capisce il retroscena di un foglietto ambiguo (“I soldati Giacosa, Graneris e uno ‘sconosciuto dell’ottavo’ sono morti e dell’ultimo non si conoscono le generalità essendo tuttora il cadavere in luoghi battuti”) lo commenta in un paragrafo secco: “Lo ‘sconosciuto dell’ottavo’ non è un soldato di un altro reparto, come avevo sempre creduto, ma uno dei nuovi arrivati (…). Quelle tre parole – chiuse fra delle virgolette che sorprendono in un bigliettino di trincea – mostrano quanto fosse sentito invece ancora come un estraneo. Riescono a dire, di quella morte, e più di qualsiasi altra frase o pensiero, la totale, assoluta, desolata solitudine”.

Ma sarebbero tanti i passi da citare, in questo libriccino prezioso e antico che, interrogando la storia e la memoria con rispetto, racconta un pugno di uomini sfocati, molto umani e poco epici. Credo che I fogli del capitano Michel sarebbe piaciuto a Mario Rigoni Stern e a Primo Levi, e forse non si può trovare complimento migliore di questo.

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Maschio bianco etero

UnknownEsce oggi la mia traduzione del nuovo romanzo firmato da John Niven, l’autore di A volte ritorno. Si intitola Maschio bianco etero e lo pubblica anche questa volta Einaudi Stile Libero, che mi ha chiesto di buttare giù qualche riga sulla faccenda: Il traduttore che ride.

Il romanzo è una sarabanda di situazioni grottesche e amorazzi esilaranti, che di pagina in pagina diventa sempre più amara.

Qui trovate la scheda del libro sul sito dell’editore.

Qui un’intervista a John Niven (e al suo accento scozzese) riguardo al libro.

Qui una recensione apparsa sul Guardian.

Buona lettura.

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Della poesia e del dolore

Ma oggi, penso, chi avrebbe più il coraggio di scrivere una lettera così?

Treviso, 12 febbraio [1963]

Cara Elsa,

ti penso sempre, sotto il peso della tua tragica vitalità intellettuale e della poesia, come nei nostri ultimi incontri. Devo sempre ringraziarti di aver potuto vedere nei tuoi occhi, la compiutezza assoluta della poesia e del dolore. E anche di quello mio, dolore; il nulla, massimo nulla possibile, in cui siamo costretti a vivere, pensandolo e contemplandolo.

Sono a Treviso, e un po’ in campagna, a lavorare. Dammi tue notizie, perché non so più nulla di te, all’infuori di una cartolina da Cordova. Sento però che sei sempre grandemente essenziale, come le ultime volte che ci siamo visti. Ed è perché tu lo sei che il nulla appare, nella sua grande ombra dilatante, più oscuro che mai: perché tu voli, di un volo lento e metafisico, senza strida o richiami, e la tua chiarezza e la tua ala mi pare di sentirle sempre che mi fanno compagnia.

Un abbraccio, tuo –

Goffredo Parise

(Da L’amata. Lettere di e a Elsa Morante, A cura di Daniele Morante, Einaudi 2012)

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