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City on Fire – IL

9780385353779(Ho letto in anteprima per IL, il magazine del Sole 24 Ore, l’atteso esordio di Garth Risk Hallberg, City on Fire.)

Un grido s’avvicina, attraversando il cielo. Viene voglia di scomodare l’Arcobaleno della gravità per iniziare a parlare della fama che anticipa l’arrivo di un libro come City on Fire attraverso il firmamento delle fiere editoriali. E quel grido, ancora prima di capolavoro, dice: “Anticipo a sette cifre”. Qualcosa tipo due milioni di dollari. L’agente ha lanciato l’asta e un editore (Knopf) ci si è tuffato, seguìto da quelli all’estero (in Italia lo pubblicherà Mondadori, a gennaio, nella versione di Massimo Bocchiola, già traduttore di Thomas Pynchon, appunto, e altri giganti).

Hallberg va per i trentacinque anni, collabora con un po’ di giornali in vista e ha pubblicato alcuni racconti. Questo non è esattamente un romanzo d’esordio, ha già dato alle stampe uno strambo libretto intitolato A Field Guide to the North American Family, un racconto lungo con alcune illustrazioni. Qualche anno fa arrivando a New York in autobus dal New Jersey è rimasto colpito dallo skyline e ha avuto l’idea di una narrazione estesa che ruotasse intorno allo storico blackout del 1977. Ha preso un breve appunto e richiuso il taccuino. Sette anni dopo eccoci con novecentoventisette pagine e il bollino “Great American Novel” come un marchio del destino.

Sarà vera gloria?

(Continua a leggere sul sito del Sole24Ore.)

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Il Grande Romanzo Americano – IL

great_american_novel_cartoon_by_mark_anderson_8791(Ho tracciato per IL una mappatura – abbastanza estensiva, a dire il vero – con ventiquattro esemplari del cosiddetto Grande Romanzo Americano. C’è qualche presenza immancabile, qualche esclusione illustre e qualche forzatura. D’altra parte è un giochino. Spero che magari qualcuno si metta a leggere, ad esempio, un capolavoro come Uomo invisibile, di Ralph Ellison, letto pochissimo in Italia e pubblicato da Einaudi.)

Nathaniel Hawthorne, La lettera scarlatta (1850). Dopo una serie di racconti emblematici (A come allegoria), uno scrittore di mezza età (A come autore) esordisce nel romanzo con una storia sulla relazione tra una donna sposata e un uomo di chiesa (A come adulterio), con tanto di figliola. Analisi del puritanesimo che vale ancora oggi: A come America.

Herman Melville, Moby Dick (1851). L’autore di alcuni romanzi di successo prende la balena per le pinne e uccide il campionato del GRA per sempre. L’ossessione shakespeariana, gli echi biblici, la bianchezza del male. Fu un flop, poi riemerse.

Mark Twain, Le avventure di Huckleberry Finn (1885). Bollato erroneamente come libro per bambini, è per Hemingway il primo cristallino vagito della letteratura americana. Huck e il nero Jim scappano lungo il Mississippi in zattera e il lettore, oltre a un Paese razzista, scopre il primo di tanti eroi scapestrati: «Santo Huck», come scrisse Nick Cave.

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Alfabeto Bleeding Edge

Unknown(È uscito per “IL”, mensile del Sole24Ore, un mio sillabario labirintico sulle idee e i temi del nuovo romanzo di Thomas Pynchon, Bleeding Edge, che uscirà in Italia per Einaudi Stile Libero nella traduzione di Massimo Bocchiola. Forse online rende un po’ meno, ma ci si può fare un’idea di come fosse impaginato da un’anteprima uscita sul Post.)

ALLEY

Non Tin Pan Alley, nel cuore del Greenwich Village, ma Silicon Alley, equivalente East Coast della quasi omologa valle californiana e sineddoche per la bolla della new economy scoppiata pochi mesi prima dell’incipit. Primavera 2001 a New York: non c’è più del marcio in città, visto che Giuliani ha già reso «tutto quanto orrendo e lobotomizzato, proprio come piace a loro». È una metropoli sottilmente corrotta in attesa degli aerei e, stando all’esergo di Westlake, è la co-protagonista di questo software-boiled.

(Continua a leggere sul sito del Sole24Ore.)

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La città dell’alfabeto

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(Ripropongo un mio sillabario spericolato su un viaggio invernale a New York, che un paio d’anni fa ho pubblicato sul Primo Amore.)

A come ABC. Dormo in Alphabet City, tra Avenue A, B e C. Terminati i numeri, in questo angolo di New York sono partiti dalle lettere. È qui che vengono a vivere tutti gli scrittori della città, per ordinanza comunale. Ispirazione urbana, calamoterapia del sonno. L’alfabeto ne stravolge la vita notturna, fruga nei loro sogni: compongono romanzi sonnambuli, camminando per il quartiere. La tastiera è la strada, lo schermo il riflesso sul vetro di un caffè, la stampa il muro pastrocchiato di un palazzo fatiscente: perfino i cagnolini a passeggio sfornano qualche interiezione nelle pagine più deboli del loro nuovo capolavoro. Mi sveglio di colpo, ho appena scritto questa frase: chiamalo sonno.

B come band. In qualsiasi isolato del Lower East Village o di Williamsburg trovi localini dove suonano band da pomeriggio a sera – alle sei, alle sette, alle otto e alle nove – quasi tutti gratis, a parte la birra. Alla fine casco sul muy divertido Marc Ribot: suona intorcigliato alla chitarra come un vitigno al palo, la testa china che lascia intravedere solo la chierica e riproduce in minore il gesto alla Miles Davis delle spalle al pubblico (poi imitato da innumerevoli direttori d’orchestra). Si aggroviglia intorno a un pezzo di John Coltrane. Se obbligo del musicista classico è di non lasciare intravedere niente della preparazione e dell’esercizio, il segreto del jazzista è l’opposto: aprire la parete dell’officina, mostrare la fatica, improvvisare. Di qui il sudore e l’eroina. A fine concerto, ovviamente, lo incrocio al bar che ordina un succo di frutta.

(Continua sul Primo Amore.)

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