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Write drunk, edit sober?

hemingway6(La Lettura, l’inserto letterario del Corriere della Sera, ha chiesto ad Alessandro Beretta e a me di scrivere un pezzo pro e uno contro il binomio Scrittura&Alcol. Il risultato è stata una singolar tenzone, finita on-line. Ecco l’inizio del mio pezzo.)

In una delle sue più divertenti poesie Charles Bukowski, nume tutelare di ogni santo bevitore che abbia provato a misurarsi con la pagina, spiattella una serie di raccomandazioni su come diventare un grande scrittore e, tra le altre cose, invita a trincare birra. Moltissima birra. Detto fatto, a ogni ristampa una schiera di aspiranti poeti, dopo essersi scolata la suddetta silloge e avere ignorato l’esortazione del maestro a sorbirsi anche qualche riga almeno di Dostoevskij o del norvegese Knut Hamsun, decide che una doppio malto possa essere il primo gradino per trovare l’ispirazione. Problema: si comincia così e si finisce nel tunnel dell’autopubblicazione (per non parlare della pancia gonfia).

Forse l’ubriacone e lo scrittore hanno una sola cosa in comune: l’esagerazione. Il primo è incline a deformare senza remore e il secondo ammanta la bevuta di connotazioni leggendarie. Non a caso un’autorità in entrambi i campi come Dylan Thomas dopo la sua inconsapevole ultima serata di bisboccia sul pianeta si vantò di avere bevuto diciotto whisky. Post mortem, il barista lo smentì riducendoli a otto.

Forzature a parte, gli elogi dell’alcol come fermento creativo non si contano: da Lorenzo Da Ponte («viva il buon vino/ sostegno e gloria dell’umanità») a F. Scott Fitzgerald («Il troppo stroppia, ma troppo champagne è il giusto»), passando per l’immancabile Baudelaire («Inebriatevi senza tregua: di vino, di poesia o di virtù»), l’equivalenza tra ebbrezza e inventiva è diventata un luogo comune, pericoloso ancora più per le lettere che per il fegato.

Ma da dove nasce questo fraintendimento?

Continua a leggere entrambi i pezzi sul sito della Lettura.

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Don’t Shoot the Translator

lasinoeilbue

(Questo articolo è uscito sul Corriere della Sera qualche mese fa.)

Nel Settecento un predicatore londinese terrorizzava i fedeli dal pulpito con queste parole: “Non dovete mai dimenticare che questo libro…” e a quel punto sollevava la Bibbia di re Giacomo, “non è la Bibbia, ma una traduzione della Bibbia”. Parole sante, è il caso di dirlo. Anche se il pistolotto deve avere illuminato troppi cuori. Ormai è una litania, un tormentone. “Com’è il romanzo?” sonda l’incauto. “Così, così”, sermoneggia l’interlocutore, “sarà colpa della traduzione”.

Può essere un critico, un blogger o una brava persona, non importa: il malanimo verso un libro — magari mediocre o, peggio, grandiosamente complesso — si concentrerà sull’operato dell’oscuro mestierante. La sentenza è equiparabile a luoghi comuni come “non esistono più le mezze stagioni” o “tutti i politici rubano”. O ancora, arcanamente connesso al discorso, “i traduttori sono sottopagati”. E allora, verrebbe voglia di chiosare, parafrasando il detto da balera, pardon saloon: “Don’t shoot the translator”. Anche perché generazioni di intellettuali si sono formati su versioni raffazzonate di classici moderni, variazioni di capolavori poetici, avventurose trasposizioni di saggi.

In libreria aleggiano ancora lo Shakespeare di seppia curato da Montale, i grandi americani con i paragrafi pressoché riassunti da Elio Vittorini e i memorabili svarioni perpetrati ai danni di “Furore” di John Steinbeck, a partire dal fatto che — anche per la censura fascista — in italiano la tirata sul fantasma di Tom Joad (che ha ispirato prima una canzone di Woody Guthrie e poi una di Bruce Springsteen) è puf svanita. Non solo, a nessuno è mai passato per la testa che Norman Mailer intendesse il titolo del suo capolavoro “The Naked and The Dead”, ebbene sì, al plurale. E infine da anni la povera impiegata di T.S. Eliot torna a casa sulle pagine della “Waste Land” e stende alla finestra le sue “combinazioni” (“combinations”, in originale, che nelle innumerevoli traduzioni nessuno ha avuto il coraggio di restituire, almeno una volta, con “sottoveste”). Per carità, niente accanimento: si trattava in gran parte di traduzioni pionieristiche, storicizzabili, idiosincratiche (eppure quanti genocidi linguistici sono stati compiuti in nome delle trasposizioni “d’autore”!). Ma se la forza dell’Ottocento russo è sopravvissuta alle rese dal francese, in un’epoca viceversa di eccellenti traduzioni potrà la nostra serenità restare tale davanti a una svista, a un intoppo, a una zeppa?

E invece capita di ricevere telefonate notturne dall’amico prostrato: “A pag. 322, nella scena della serra, ho confuso urtica dioica con urtica urens, gli anobiiani non me lo perdoneranno mai”. Intendiamoci, è bene tendere alla perfezione, ma accantoniamo le isterie. Si racconta che perfino il bue e l’asinello nascano da un apocrifo. Maria depone il bambino nella mangiatoia e la profezia di Abacuc si adempisce: “Ti farai conoscere in mezzo a due animali”. Il testo greco della Bibbia, che recitava “in mezzo a due età (“zoòn”), aveva mandato in confusione il traduttore latino, il quale lo prese per zòon (“animali”). Se ci siamo abituati ad avere nel presepe una fantasmatica accoppiata animale imputabile a uno strafalcione, riusciremo ad avere misericordia per il fidus interpres alle prese con un giallo?

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Virginia e Anna. Di armonia risuona e di follia

Virginia_Woolf

(Questo articolo è uscito sulle pagine del Corriere della Sera qualche settimana fa.)

“In primo luogo, è pacifico che tutte le passioni rientrino nella sfera della follia.” È stato con queste parole di Erasmo da Rotterdam in testa, probabilmente, che qualche tempo fa un insegnante austriaco, in quel di Innsbruck, ha deciso di tenere lezioni regolari su un tema tanto delicato agli studenti delle scuole secondarie. L’obiettivo era avvicinarli a un discorso risospinto di continuo ai margini non tanto degli istituti scolastici, quanto della società e della vita civile stesse. Ed è senz’altro sulla falsariga di questo esempio che Eugenio Borgna – psichiatra vincitore del Premio Bagutta nel 2005 con L’attesa e la speranza – ha tenuto un seminario in un liceo di Novara per riprendere il filo di quel ragionamento intorno alle zone grigie tra malattia e creatività, tra norma e follia. Anche per ribadire che la nostra vita, stando al verso di Georg Trakl che regala il titolo al libro (“Campi del sapere” Feltrinelli, pp. 210, € 18) tratto da quelle lezioni, risuona di armonia e di follia, oscillando a volte impercettibilmente tra questi due poli.

Ma forse i presupposti risalgono a un momento ancora precedente.

“Vedo come danzano le stelle d’oro, / ancora è notte, ancora è il caos come mai ancora.” Sono due versi scritti da Ellen West. Non è una poetessa molto famosa. Anzi, a dirla tutta non è proprio una poetessa. Si trattava di una paziente di Ludwig Binswanger, massimo esponente della psichiatria fenomenologica (una branca che, per semplificare, interpreta la malattia mentale come uno dei modi possibili di porsi dell’essere umano). Il celebre psichiatra riportò i conati poetici di questa giovane donna in un saggio sulla sua degenza in clinica psichiatrica, per alcune turbe legate all’anoressia, e sulla successiva dimissione, culminata in un tragico suicidio. In quel dialogo tra psicosi e poesia, Binswanger si sforzava di rinvenire ed evidenziare il confine evanescente in cui l’una trapassasse nell’altra e viceversa.

Partendo da questo illustre presupposto, Eugenio Borgna ha continuato a esplorare nella propria opera la “sorella sfortunata della poesia”, e cioè il territorio della malattia mentale, in un modo nuovo. Non l’ha fatto da un punto di vista clinico, ma appunto fenomenologico, per cercare nel buio della mente una testimonianza sui tanti orizzonti e sulle innumerevoli gradazioni presenti nel dolore, nella malinconia e nella colpa, tanto negli artisti quanto nell’uomo comune. Qual è la realtà della follia? Qual è la sua immagine? E le opere del pensiero, come già suggeriva Franco Basaglia, non possono aiutare a decifrare le spirali, tuttora misteriose, della schizofrenia, della depressione e della psicosi?

Da qui parte un lungo percorso che si snoda attraverso le malinconie presaghe della poetessa suicida Antonia Pozzi (“Quando dal mio buio traboccherai / di schianto / in una cascata / di sangue – / navigherò con una rossa vela / per orridi silenzi / ai crateri / della luce promessa”), l’abissale misticismo di Teresa di Lisieux (“O Gesù! (…) Lasciami dirti che il tuo amore arriva fino alla follia…”), la malinconia creatrice di Søren Kierkegaard e lo straziante carteggio tra i poeti Nelly Sachs e Paul Celan, in un tentativo, davvero disperato, di chiedere aiuto a poesia e filosofia per decifrare i fenomeni della vita psichica.

È possibile intravedere nei deliri di Septimus l’ombra della fine che avrebbe fatto l’autrice della Signora Dalloway? Possiamo intuire qualcosa del peso che sovrasta l’anima del depresso in un quadro di Arnold Böcklin? Borgna procede come un Pollicino impavido, ogni volta smarrito in un bosco terrificante, e raccoglie uno dopo l’altro le tracce tormentate di chi è passato di lì, disseminando la propria opera di segnali e richieste d’aiuto, citazioni e squarci tragici. Quindi raffronta questi estratti con gli sfoghi espliciti, quasi urlati, dei suoi pazienti (Claudia, Elena, Raffaele: persone comuni), affetti dalle stesse malattie, con il risultato di farci leggere l’alienazione con gli occhi dell’arte e la poesia con gli occhi della malattia.

“Dilatare l’area della normalità nella follia e della follia nella normalità”, ci dice Borgna, deve essere la prassi di qualsiasi psichiatra, per capire che in ogni esperienza psicotica vivono zone di non-follia e, per usare due parole care a Simone Weil, che in ogni ombra c’è un po’ di grazia. Così le parole furibonde di Friedrich Nietzsche possono riecheggiare in quelle di un uomo precipitato nell’abisso della depressione, nel tentativo di riallacciare un dialogo necessario tra medico e paziente, tra vita e non-vita, in cui davvero, per rubare le parole usate da Cristina Campo in riferimento a Virginia Woolf, ogni artista, e prima ancora ogni essere umano, sembra solo nella propria esistenza come il ragno “unicamente sostenuto e insieme prigioniero del tessuto che ordisce (…) questa trama senza sosta riprodotta dalla creatura che vi corre sopra, attenta alla minima smagliatura, allo strappo più lieve: perché realmente la trama è seduta sopra un abisso, realmente un piede in fallo può significare la fine”.

Ecco che allora le affinità potranno emergere tra le esperienze più disparate e disperate, in un continuo e lacerante gioco di echi, dove l’obiettivo è sempre quello di riaffermare la dignità negletta dell’infermo. Se dal 1978, anno della legge Basaglia che chiuse i manicomi e regolamentò il trattamento sanitario obbligatorio, il malato non è più condannato alla reclusione, ciononostante continua a venire discriminato, come una colpa o un presagio infausto, nella vita quotidiana delle famiglie e della società civile. Non solo, emarginato nell’idea generale che abbiamo di lui. Incompreso e impenetrabile, il paziente finisce in un vuoto che non ha eguali. E forse accostare la voce di un classico a quella di uno sconosciuto qualsiasi può aiutare a capire.

Lo dimostrano questi due brani.

“Perché mai è così tragica la vita; così simile a una striscia di marciapiede che costeggia un abisso. Guardo giù; ho le vertigini; mi chiedo come farò ad arrivare alla fine. Ma perché mi sento così: ora che lo dico non lo sento più. Il fuoco arde; stiamo andando a sentire l’Opera del mendicante. Eppure è intorno a me; non riesco a chiudere gli occhi. È una sensazione di impotenza; di non fare nessun effetto.”

E poi: “Non voglio guarire, sì voglio guarire, ma non guarisco. (…) È una disperazione, è un caos. Mi faccia morire. Faccio diventare matti tutti. Non mi faccia più soffrire, sia bravo. Vorrei fare una cosa, e poi riprendere quella sofferenza. Mi faccia dormire, tanti giorni.”

Il primo è tratto dai diari di Virginia Woolf. Il secondo dalle sedute di una paziente anonima. Nel libro prende il nome semplice e bello di Anna.

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Koba il miracolato, Corriere

Già avanti negli anni, Iosif Vissarionovič Džugašvili – alias “Soso”, alias “Koba”, alias “Soselo” (il suo pseudonimo come poeta, ebbene sì, di stampo romantico), ma passato alla storia con il nomignolo di Stalin, ossia “acciaio” (forse scelto, curiosamente, per una storia galante con una fiamma che di cognome faceva Stal, oltre che per l’assonanza con Lenin) – autorizzò con riluttanza la pubblicazione di uno dei tanti libri di memorie che lo riguardavano. Era un’opera non certo eclatante, scritta dalla sorella della seconda moglie Nadja, ma risultava a suo modo audace perché in barba ai timori diffusi osava parlare del braccio rigido del dittatore.

Quello del braccino – evidente in alcune foto – era un difetto fisico che l’aveva accompagnato per tutta la vita e che, come tanti altri fatti, era ammantato di reticenze e ambiguità, ma ebbe senz’altro un peso nella definizione della sua personalità insieme a una serie di altre imperfezioni fisiche. Questi e altri misteri sono stati raccontati da Simon Sebag Montefiore in una biografia sulla sua giovinezza pubblicata nel 2010 da Longanesi (Il giovane Stalin, traduzione di Giovanni Ferrara degli Uberti, pp. 551, € 24) che ricostruisce la vita del dittatore sovietico dalla nascita fino all’avvento al potere. Per svelarli, lo storico inglese ha potuto avvalersi di numerosi archivi inattingibili ai precedenti biografi

Venuto al mondo in quel di Gori, in Georgia, il 6 dicembre del 1878, Stalin nacque con il piede palmato: il secondo e il terzo dito erano uniti. Niente di terribile, ma anche questa piccola malformazione rimase per lui una cosa di cui vergognarsi, tanto che quando si faceva visitare i piedi dai medici del Cremlino l’uomo più potente del mondo, almeno in termini di vita e di morte, si sentiva in dovere di nascondere il viso sotto una coperta.

Il neonato venne definito dalla madre Keke “debole, malaticcio, esile”. Anzi: “Se c’era in giro una malattia infettiva, si poteva star certi che lui sarebbe stato il primo a prendersela”. Avendo già perso due figli, i genitori – Keke e l’alcolista Beso, che tanta parte ebbe nell’instillare paura e violenza nel figlio – andarono in pellegrinaggio non lontano da casa ma trovarono i sacerdoti intenti a compiere un esorcismo su una bambina, sospesa sopra un burrone, in una scena da film horror. Il neonato Soso cominciò a frignare e a rabbrividire ma scampò ai metodi sbrigativi di quegli esorcisti da strapazzo. Quando compì cinque anni la città venne investita da un’epidemia di vaiolo che fece vittime soprattutto tra i più piccoli. I vicini di casa persero tre figli ma, se Stalin sopravvisse, la malattia gli segnò per la vita intera le mani e il volto, tanto che uno dei suo soprannomi fu “il Butterato”. Non dovette gradire, perché una volta arrivato al potere si fece incipriare le guance in modo massiccio e ritoccare le fotografie, non solo per fare sparire dal passato gli ex compagni ora invisi al regime, ma anche per addolcirsi l’aspetto.

A dieci anni venne investito da un calesse davanti alla scuola ecclesiastica di Gori dove avrebbe studiato e rischiò ancora la pelle. Forse fu una prova di coraggio oppure un caso, fatto sta che fu riportato a casa tramortito. Anche questa volta si riprese, ma l’incidente gli causò un danno permanente al braccio sinistro. Fu soprattutto questa menomazione, in aggiunta al piede e al viso (oltre alle voci sulla sua illegittimità), che contribuì a dargli un senso di diversità e d’inferiorità fisica: non avrebbe più potuto incarnare l’ideale del guerriero secondo il quale era cresciuto. Per inquadrare a dovere il rapporto con la forza fisica coltivato da Stalin bisogna pensare che crebbe in un ambientino per nulla facile, un vero proprio Far West caucasico dove la legge della strada temprava e corrompeva i giovani fin dalla più tenera età. Era stato allevato dalla madre come un cavaliere georgiano, ideale che lui trasformò in paladino della classe operaia. “Un uomo forte deve rimanere forte,” le scrisse quando lei era già vecchia. Invece, dopo essere stato investito, con suo grande imbarazzo non fu più in grado di ballare in modo appropriato o stringere alla vita una donna. Certo, la faccenda lo salvò dal servizio di leva nel corso della prima guerra mondiale, nelle cui trincee avrebbe potuto perdere la vita. Ma per lui la forma fisica rimase un nodo irrisolto, tanto che a fine guerra, quando incontrò di persona il più giovane e prestante maresciallo Tito, ebbe l’impulso ben poco diplomatico di abbracciarlo e sollevarlo di peso. “C’è ancora della forza in me!” tuonò davanti alle delegazioni allibite.

“Questo braccio danneggiato,” racconta Montefiore, “è variamente imputato a un incidente di slitta, a un difetto congenito, a un’infezione infantile, a una rissa per una donna (…), a un incidente causato da una carrozza e a un pestaggio del padre: tutti (eccettuato il difetto congenito) suggeriti dallo stesso Stalin.” Se intorno alla cosa c’è molta confusione è perché gli incidenti in realtà furono due. All’età di dodici anni un altro calesse (e resta davvero impressionante la capacità da parte del futuro dittatore di scampare a una morte che avrebbe cambiato il corso della storia, se non in meglio sicuramente non in peggio) lo travolse e le ruote gli passarono sopra le gambe. Il giovane svenne e fu portato all’ospedale di Tiflis. Per mesi saltò la scuola ma le gambe rimasero danneggiate, tanto che anche dopo essere guarito camminava con passo incerto e gli venne appioppato l’ennesimo nomignolo, “il Claudicante”.

Insomma, un miracolato. Un uomo capace di scampare alla cagionevolezza, al vaiolo, a due incidenti in carrozza, sospettoso e complessato, ma dotato di una volontà di ferro. Sarebbe assurdo, com’è ovvio, far risalire a queste infermità – a quel viso, a quel braccio, a quell’andatura e a quell’innocuo piede palmato – la psicotica gestione del potere che portò a milioni di morti, affamandone tanti altri. Iosif Vissarionovič Džugašvili non fu un Riccardo III. Ma è certo che questi disturbi ebbero un piccolo ruolo nell’affilare un carattere già diffidente e maligno, fragile e protervo allo stesso tempo. Malato, senz’altro, di potere e di violenza.

(Questo mio articolo è uscito qualche mese fa sul Corriere della Sera.)

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Il male oscuro di Thelonious Monk

In un film di qualche anno fa il tipico protagonista nevrotico impersonato da Woody Allen sciorinava alla moglie in dolce attesa una serie di nomi per il primogenito. Tra questi, con orrore della consorte, figurava lo strambo “Thelonious”, che agli spettatori profani non disse granché, ma strappò un sorriso agli appassionati di musica jazz. Il riferimento era a Thelonious Monk, straordinario pianista e compositore, celebre non solo come inventore del bebop, insieme a Charlie Parker e a Dizzy Gillespie, ma anche per le tante eccentricità. Dotato di uno stile particolare, spesso e volentieri si alzava dal pianoforte e ballava sul palco, oppure gironzolava per il locale e attaccava bottone con gli sconosciuti. Con il tempo le stravaganze peggiorarono: venne buttato fuori dagli alberghi per avere dato in escandescenze, divenne sempre più scostante, conobbe l’onta della prigione e del ricovero in ospedale psichiatrico, tanto che ancora oggi realtà e leggenda si confondono.

Dopo un’infanzia di povertà, emigrato con la famiglia dal sud degli Stati Uniti a New York, Monk sentì un immediato richiamo verso la musica, nato dalla strada (“il jazz risuonava ovunque”) e favorito da un talento precoce. “Credo di non potergli insegnare niente,” ammise l’insegnante. “Presto ne saprà più di me.” Con ostinazione, cominciò a farsi un nome nel sottobosco musicale newyorchese, strimpellando ovunque. “Tu prova a dire un posto: io ci ho suonato.”

Già in quelle prime esibizioni si fece la fama di tipo stravagante, poi alimentata da un’aneddotica sterminata. Ai momenti di creatività febbrile (era capace di suonare per ore e ore), alternava crolli inesorabili durante i quali stava a letto per due giorni di fila. Euforia, depressione: non era facile districare la matassa di una vita dissoluta e individuare i sintomi di quello che oggi possiamo quasi certamente classificare come disturbo bipolare. Se già allora erano pochi gli psichiatri che capivano la natura di quel male, figurarsi i profani. In più, come tanti jazzisti, Monk beveva troppo e, pur senza mai diventare eroinomane, faceva uso di stupefacenti. Le stranezze vennero attribuite agli eccessi o rubricate sotto il facile binomio genio e sregolatezza.

Proprio all’ombra di questo stereotipo, cominciò la retorica intorno al suo mistero. Fin dal primo articolo su di lui, commentandone i tempi, un giornalista ne sottolineò la letargia: “Potrebbe benissimo essere la chiave per comprendere la sua personalità complessiva”. Quest’aura, che vendeva bene, fu amplificata dal lavoro di un’addetta stampa che lo dipinse come lunatico, sonnambulo, bizzarro. Da quel momento non si scollò più l’etichetta caricaturale di personaggio scontroso, con una vena di follia, decretandone una parte di successo ma anche banalizzandone il carattere. “Un personaggio da fumetto,” scrisse un critico. “Buono per i supplementi domenicali dei quotidiani sull’esotismo del jazz.” E il cui male passò in secondo piano. Di cosa era affetto l’autore di classici come “’Round Midnight”? Una recente, monumentale biografia (Robin D.G. Kelley, Thelonious Monk. Storia di un genio americano, traduzione di Marco Bertoli, Minimum Fax 2012, pp. 807, € 22) ne ricostruisce, insieme alla vicenda umana e musicale, l’iter medico e farmacologico.

I fatti. Un giorno, mentre guidava in pieno inverno, Monk slittò sul ghiaccio e andò a sbattere contro un’altra auto. Quando il guidatore gli chiese le generalità, lui rimase lì a fissare il vuoto. La scena muta continuò anche quando arrivò la polizia, tanto che alla fine l’agente lo portò in un ospedale psichiatrico, dove venne trattenuto per tre settimane e dimesso senza una diagnosi. Ci sarebbero voluti vent’anni, prima che i medici gli diagnosticassero una forma di bipolarismo. Come racconta il biografo: “La sindrome maniaco-depressiva include un’ampia gamma di disturbi dell’umore (…) Addormentarsi al pianoforte, fissare assorti lo sguardo nel vuoto, essere apparentemente incapaci di riconoscere le persone, sono tutti indici di ciclotimia, ossia di stato depressivo”. Ma il problema non fu solo lo stile di vita sregolato abbinato a un disturbo ereditato dal padre (che morì da solo in un istituto psichiatrico), il dramma fu soprattutto la cura.

Fin dall’inizio i medici gli somministrarono la cloropromazina, più nota con il nome commerciale di Thorazine, un antipsicotico per la schizofrenia di cui gli ospedali statali facevano largo uso per la rapidità dell’effetto e la convenienza. Gli effetti collaterali erano molto pesanti: vertigini, sonnolenza, rigidità muscolare. I pazienti avevano l’impressione di vivere con “una coperta gettata sul cervello”. Proprio per questo lo psichiatra che l’ebbe in cura, tale dottor Robert Freymann, lo accompagnò con “dosi di vitamina” per endovena che ne bilanciassero l’effetto sedativo. Nessuno dei pazienti sapeva che il ciarlatano tagliava le vitamine con le anfetamine, alimentando la dipendenza dagli stupefacenti.

Non si può sapere quale sia stato l’effetto di questa combinazione sulla malattia di Thelonious Monk, che intanto dopo i “non-anni” di insuccesso, come li chiamava, era finito sulla copertina di “Time”. Certo, l’estenuazione dovuta ai tanti concerti e agli eccessi esasperò una situazione latente. Le crisi divennero più frequenti, le prestazioni altalenanti e il confine tra il modo già ampiamente giocoso che aveva di stare sul palco e il momento in cui perdeva il controllo sempre più labile. Era diventato il “gran sacerdote del jazz”, un po’ guru e un po’ santone: imprevedibile, obliquo, sfuggente. Un idiot savant del quale passarono in secondo piano la dolcezza, la generosità, l’umorismo. Quando Monk smise di andare dal dottor Freymann e cominciò una dieta a base di succhi naturali, era troppo tardi. Gli venne diagnosticato uno squilibrio biochimico e cominciò una vana caccia al medico giusto. Non poteva venire lasciato solo (venne sorpreso a girare sotto la neve in pigiama), fu sottoposto a elettroshock e gli diagnosticarono una schizofrenia, aumentando il dosaggio di Thorazine fino a 2500 milligrammi (per una persona normale ne bastano 50).

Qualche volta ci giocava. Un giorno in Australia un fan cercò di scambiare qualche parola e, davanti alla sua indifferenza, sbottò: “Dica qualcosa, per favore!” Monk, serafico: “Qualcosa”. Altre ancora era semplicemente in stato catatonico. Nel 1972, durante l’ennesimo ricovero, gli venne somministrato il litio, un farmaco che rischia di generare tremore alle mani, apatia e passività. Di sicuro ne mostrò i segni per il resto della vita. Qualche concerto, sempre più rado, con un viavai dall’ospedale per correggere le ricette, fino al silenzio, rimasto in agguato fra una nota e l’altra. Visse gli ultimi anni chiuso in camera, a guardare la televisione in giacca e cravatta, senza quasi toccare il piano. Era stanco e, sebbene gli attacchi si fossero diradati, soffriva di incontinenza. Nel 1982 un ictus se lo portò via, o forse fu lui ad andarsene. Questione di punti di vista. In fondo, una volta, durante un concerto nel suo locale preferito, il Five Spot, se n’era andato tra un atto e l’altro ed era stato ripescato nei dintorni immobile a fissare la luna. “Ti sei perso?” gli fece il proprietario. “No,” rispose Monk. “È il Five Spot che s’è perso.”

(Questo articolo è uscito sulle pagine del “Corriere della Sera” del 2 settembre 2012.)

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La madre di tutte le malattie

Nel 2010 più di sette milioni di persone nel mondo sono morte di tumore. Circa il quindici per cento dei decessi. È con queste cifre, un vero e proprio bollettino di guerra, che si apre il monumentale libro di un oncologo americano di origine indiana dedicato alla madre di tutte le malattie. Un’opera che è prima di tutto un mosaico di storie, a volte insolite, altre ancora conosciute, sempre drammatiche. Una serie di tappe esaltanti e crudeli in cui non esistono comprimari: anzi, proprio come in un romanzo corale, qui tutti sono protagonisti.

Con L’imperatore del male. Una biografia del cancro (Neri Pozza 2011, 730 pp., € 18,00, traduzione di Roberto Serrai), Siddharta Mukherjee si è aggiudicato il Premio Pulitzer per la saggistica – forse la più prestigiosa onorificenza letteraria americana – e l’inserimento nella lista del “New York Times” con i dieci migliori libri dell’anno. Chi l’avrebbe detto non molto tempo prima quando, dopo un paio d’anni da borsista al Massachusetts General Hospital di Boston, il giovane ricercatore si ritrovò a porsi una serie di domande angoscianti, nate dall’osservazione diretta di aspettative e sofferenze sul volto dei pazienti.

Dov’era cominciata questa storia? Per capirlo bisognava fare un lungo passo indietro.

Nel 1862, un mezzo truffatore e sedicente egittologo acquistò o forse sgraffignò un papiro da un antiquario di Luxor. Il papiro venne datato al diciassettesimo secolo a.C., classificato come la trascrizione (piuttosto frettolosa, a dire il vero, visto che era zeppa di errori) di un manoscritto risalente addirittura al 2500 a.C., ma fu tradotto solo nel 1930. A quanto pare conteneva gli insegnamenti di Imhotep, un medico egiziano vissuto intorno al 2625 a.C., un po’ visir e un po’ neurochirurgo, mezzo architetto e mezzo astrologo. Un personaggio di stampo quasi rinascimentale, avvicinato perfino dai greci alla grandezza di Eusculapio. Anzi, più che lezioni, la pergamena conteneva la semplice descrizione di quarantotto casi. Malattie, in breve. Con tanto di diagnosi, anamnesi e prognosi. Era nel caso numero quarantacinque che Imhotep raccontava un episodio di problemi “al petto, rigonfiamenti grossi, diffusi e duri; toccarli è come toccare una palla di stracci”. Erano paragonabili a un frutto acerbo, continuava, “freddo e duro al tatto”. In tutta probabilità si trattava della prima descrizione di cancro al seno. Ogni altra malattia era seguita da un’ipotesi di terapia, per quanto sommaria. Solo nel caso quarantacinque Imhotep taceva.

Ci sarebbero voluti altri duemila anni per ritrovare qualcosa che potesse assomigliare al cancro: nelle Storie, risalenti al 440 circa, Erodoto raccontò la figura di Atossa, moglie di Dario e regina di Persia, che si accorse di un nodulo al petto, forse causato da una forma maligna di cancro al seno. La sua reazione, racconta lo storico, fu di trincerarsi dietro al silenzio e alla solitudine, nascondendo il corpo per la vergogna.

In realtà erano testimonianze ambigue, forse inaffidabili. Sembrerà assurdo ma per arrivare al primo caso accertato di cancro nell’antichità bisognava tornare avanti nel tempo, fino a pochi anni fa. Nel 1990 furono analizzati i resti mummificati di un’intera tribù, rinvenuti in un sepolcro vecchio di mille anni nel deserto peruviano di Atacama. Un paleopatologo “visitò” a distanza di ere una donna sulla trentina, trovata seduta in una tomba d’argilla, riscontrando una “massa bulbosa” sotto l’ascella. La diagnosi fu di osteosarcoma.

I casi antichi, in sostanza, si contavano sulla punta delle dita. Ma perché?

Proprio da qui bisognava partire per ricostruire la vicenda di una malattia che è considerata strettamente moderna per un motivo tanto semplice quanto inquietante: per imporsi statisticamente ha dovuto aspettare che l’essere umano allungasse l’aspettativa di vita e che la malattia trovasse una propria identità. Il crudele paradosso della “bile nera”, come lo chiamava Galeno, è questo: solo con il progresso della civiltà ha guadagnato una visibilità che l’ha resa, appunto, “l’imperatore del male”. Eliminate le altre cause di decesso, ecco emergere un antico morbo connaturato alla società, che genera un macabro controsenso: “Se cerchiamo l’immortalità,” chiosa mestamente l’autore, “in maniera alquanto perversa, la cerca anche la cellula tumorale”.

La contraddizione insita in quello che Ippocrate in greco aveva battezzato karkinos, per la somiglianza a un “granchio”, ha stimolato questo oscuro ricercatore dal nome tanto rasserenante (e incongruo, visto l’argomento trattato) a esplorarne la biografia per restituirci il senso di una battaglia dolorosa e avvincente. La medicina comincia con un racconto, scrive. E così, con sguardo analitico ma sempre compassionevole, Mukherjee riporta una vicenda di errori e scoperte, di eroi inconsapevoli e involontari sacrifici. Accantonati Imhotep e Erodoto, si va dalla chirurgia radicale praticata da William Stewart Halsted nell’Ottocento ai primi rocamboleschi tentativi con i raggi X, dalle scoperte di Paul Ehrlich sul passaggio nell’uso dei coloranti dai tessuti alle cellule viventi fino agli esiti inaspettati dell’agghiacciante bombardamento di Ypres, passando per il ruolo di un bambino soprannominato Jimmy nella raccolta fondi che fece uscire la malattia dall’oscurità e diede il via all’intervento della politica e all’impegno verso la prevenzione. Non manca un ruolo italiano, grazie alle pagine su Gianni Bonadonna e Umberto Veronesi, che nel 1973 all’Istituto dei Tumori di Milano diedero un contributo più che rilevante alla ricerca, avviando un trial per studiare gli effetti della chemioterapia adiuvante sul cancro al seno allo stadio iniziale. Un esperimento riuscito che, in un momento di profonda spaccatura tra chirurghi e chemioterapisti, sbalordì la comunità scientifica.

Eppure la storia di questa malattia non è solo quella dei medici, “gettati nella confusa prima linea della medicina oncologica, a fare giochi di prestigio con le combinazioni di farmaci più tossiche e futuristiche possibili”, ma è anche quella dei pazienti che si battono e sopravvivono, passando da uno stadio della malattia all’altro. “La capacità di recupero, l’inventiva, e la volontà di sopravvivere” racconta Mukherjee “sono qualità riflesse, che emanano dapprima da chi lotta contro la malattia e solo dopo sono rispecchiate da chi cura la malattia”. Sommersi, salvati e salvatori sembrano tutti tendere a un unico fine. Invisibile, eppure onnipresente.

Forse per questo, quando l’autore del libro va a trovare – in mezzo a un paesaggio mozzafiato di laghi cristallini e betulle a perdita d’occhio, in un angolo remoto del Maine – una dei pochi pazienti sopravvissuti molti anni prima a una terapia sperimentale, lei riesce solo ad ammettere il senso di colpa: “Non so perché meritassi la malattia, ma non so nemmeno perché abbia meritato di guarire”. Quella donna forse non conosceva il significato di una parola che ha unito la propria storia a quella del cancro: onkos, che in greco voleva dire “massa” o “carico”. Quel peso, passato di mano in mano come una terribile fiaccola, è il protagonista di un racconto che riguarda la sopravvivenza di tutti. La nostra, come quella della regina Atossa, migliaia d’anni fa.

(Questo mio articolo è uscito qualche mese fa sul Corriere della Sera.)

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“L’autore è morto. Seguirà reading.” Alessandro Beretta, Corriere della Sera

Che lavoraccio fare lo scrittore. Non solo per i contemporanei, ma anche per i classici. E così che il trentottenne milanese Marco Rossari, scrittore e apprezzato traduttore di autori come Percival Everett e Hunter S. Thompson, attraversa lo scibile letterario in una felice e spudorata raccolta di racconti. Dopo essere passato in diverse occasioni lungo il crinale alcolico amoroso, dal romanza Perso l’amore (non resta che bere) (Fernandel, 2003) ai racconti di Invano veritas (e/o, 2004) fino alle poesie-canzoni di L’amore in bocca (Fernandel, 2007), ecco un libro interainente dedicato alla vera passione dannata: la letteratura, un’amante che non ha più le belle sembianze di un’angelica Beatrice, ma quelle di una livida Musa alla Baudelaire. Nelle ventidue storie che compongono il libro, infatti, la soluzione abbracciata di frequente dai protagonisti di fronte all’ansia dell’ispirazione è una e segue l’enunciato del titolo: L’unico scrittore buono è quello morto. Certo, con diverse varianti, spesso unite a una risata liberatoria; come nei brevi aforismi e apologhi che le accompagnano a cominciare dal lapidario «L’autore è morto. Seguirà reading». Il limite della morte, comunque, è attraversato dai grandi del passato che si ritrovano dispersi nell’attuale industria culturale con imbarazzi a catena: da Tolstoj, invitato in un programma radio a presentare Sonata a Kreutzer, che non sa rispondere alle mail degli ascoltatori («Ilaria da Foggia chiede se legge i contemporanei»), a James Joyce che invia invano i suoi manoscritti agli editori in “Ci hai provato, James”, a Dante che in “Ho letto il suo poema” riceve la chiamata di un editor preoccupato per la presenza nella Commedia di troppi nomi reali che «potrebbero causare alla casa editrice diverse grane». Situazioni surreali e paradossali che l’autore sa tenere bene, sia nel ritmo dell’agile scrittura che nell’umorismo screziato da una sana ironia iconoclasta. Se gli autori classici non sono molto a loro agio nel presente, gli scrittori d’oggi non stanno meglio: anzi, il fantasma del passato li blocca. Come nelle due storie dedicate a Franz Kafka e Jack Kerouac, in entrambi i casi il protagonista si ritrova in mezzo a un culto che ormai ha le sembianze di un inquietante turismo dell’immaginario. Nel primo racconto si festeggia il «Capodanno a Kafkania», lugubre Disneyland con tanto di sosia dell’autore praghese, mentre nel secondo «Dove finisce la strada», in un viaggio della Tourism Is Nihilism per l’esposizione del manoscritto di On the Road, il giovane Pomerai conclude amaramente: «Leggi Sulla strada e dopo quattro rum hai l’impressione di avere un romanzo grande come il mondo, mentre ti resta solo il mal di testa». Di fronte all’enigma a tre teste – scrivere, vivere, pubblicare – che molti aspiranti autori e scrittori fronteggiano, vale forse una delle soluzioni proposte nel libro: «Io non pubblico, non scrivo e nemmeno vivo. Sto bene infatti».

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