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CÉLINE IN LOVE

5379721037_9e13ab4247_o(Ho scritto una recensione su Lettere alle amiche di Louis-Ferdinand Céline, Adelphi.)

… L’amore, già. E amoroso sapeva esserlo, come sa bene chiunque abbia letto il Viaggio al termine della notte e l’estremo commiato – dolcissimo, in un libro furibondo – con Molly: “L’ho abbracciata Molly con tutto il coraggio che avevo ancora nella carcassa. Avevo una gran pena, autentica, una volta tanto, per il mondo intero, per me, per lei, per tutti gli uomini. È forse questo che si cerca nella vita, nient’altro che questo, la più gran pena possibile per diventare se stessi prima di morire.” Ecco allora tornare in libreria, onerato dalla pena amorosa, il mostro strisciante, mellifluo, esilarato, l’angolo cieco del Novecento, come una bestia circondata dalle belle: di nuovo nel catalogo Adelphi, che già annovera la sua tesi di laurea (Il dottor Semmelweis), ma questa volta con una serie di carteggi sessuali e sentimentali, ossia le Lettere alle amiche, un interessante libretto a cura di Colin W. Nettelbeck, in verità pubblicato da Gallimard nel 1979 (traduzione di Nicola Muschitiello, pp. 257, € 15)…

(Continua a leggere sul blog di Pixartprinting.)

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La lanterna magica di Molotov

ceb05a50082b07ed724ef7e0ed3c3a9f_w600_h_mw_mh_cs_cx_cyUna sera di non molti anni fa, durante una festicciola in un appartamento moscovita situato in vicolo Romanov – celebre luogo del centro città dove hanno vissuto stratificazioni diversissime di persone e personaggi, dalla nobiltà ai notabili di partito –, un imprenditore americano fa tintinnare davanti agli occhi stupefatti della studiosa Rachel Polonsky le chiavi di un appartamento al piano di sopra. In quella casa ha vissuta nientepopodimeno che Vjačeslav Michajlovič Skrjabin, meglio conosciuto con il nome di battaglia “Molotov” (dovuto alla tradizione nominalistica sovietica, sempre combattiva e ridicola: molot in russo vuol dire “martello”). Era il celebre e temuto numero due di Josif Stalin, firmatario nel 1937 di un numero di esecuzioni superiore anche a quello ratificato da Koba il Terribile: quarantatremila, una più una meno.

“Vuole andare a visitarla?”

Quando il giorno dopo la scrittrice entra nella casa, la trova quasi intatta, con i suoi oggetti preziosi, l’enorme biblioteca e soprattutto una lanterna magica, il dispositivo che anticipava il cinema e che proiettava immagini dipinte su un vetro. In quel meccanismo trova non solo una rievocazione del passato quasi fiabesca (una famiglia su uno scoglio in Crimea, uno sciamano dallo sguardo fisso), ma soprattutto l’emblema del libro che comincerà a scrivere. La lanterna magica di Molotov. Viaggio nella storia della Russia (Adelphi, traduzione di Valentina Parisi, pp. 434, € 28) è un saggio romanzesco o forse un romanzo saggistico, un libro di viaggi o forse di sogni (ma che importanza ha?), fatto dell’evanescenza impalpabile regalata alle immagini dal lume di una candela. In una prosa densa, sapiente, a volte fumosa come l’aria di una banja, a cui è bello abbandonarsi, la Polonsky ci guida attraverso le innumerevoli stratificazioni della terra russa, letterarie e politiche e geografiche.

Partendo dai libri di Molotov – per ogni libro, una storia e un luogo da esplorare (viene scartabellato perfino l’elenco telefonico Tutta Mosca del 1917) – l’autrice comincia a vagare con la mente e con il corpo. Insieme alla famiglia, muove dall’appartamento di vicolo Romanov e peregrina per l’evasivo fascino di Mosca, poi fuori città fino alle izbe di Lucino, quindi verso Novgorod e Rostov, dietro a storie di scrittori e scienziati, esuli e cosacchi, delineando un libro errabondo, affascinato dalla misteriosa anima russa, rilucente in un passato irrecuperabile. Anche per lei, come quando racconta della passione inventariale di un conte, tracciare queste storie sembra un’attività religiosa, simile alla pittura delle icone. “Il conte stava cercando l’accesso alla città morta degli antenati, così come un pittore di icone apre un portale sul mondo trascendente, calibrando il punto di vista, aggiungendo luce dorata.”

Un libro di libri, insomma, ma soprattutto di storie e di persone. O meglio di fantasmi. Sono tanti gli spettri che aleggiano ad ogni riga, trovando requie solo nella continuazione della lettura. C’è quello del bibliotecario Nikolaj Fëdorov, il “Socrate russo”, custode del Museo Rumjancev (prima che diventasse Biblioteca Lenin), che pare conoscesse a memoria tutti i volumi ed era convinto che la missione primaria dell’uomo sulla Terra fosse la resurrezione dei defunti (“Idea non così folle come sembra,” annotò Tolstoj, probabilmente dopo qualche vodka, o vangelo, di troppo). C’è quello di Walter Benjamin, accorso in Russia per vedere il luogo dove “tutto il fattuale è già teoria” e che in queste pagine si congeda dalla donna amata nell’immagine struggente di un gigante del pensiero in lacrime con in mano una valigia piena di vecchi giocattoli, acquistati per curiosità a una bancarella. C’è quello della fantomatica spia Sidney Reilly, complottista con tanto di parrucche e charme seduttivo, convinto di poter fermare la Rivoluzione d’Ottobre e costringere Lenin a sfilare con le braghe calate davanti al Cremlino (inutile a dirsi, il tentativo naufragò). C’è naturalmente lo spirito di Fëdor Dostoevskij, partito per la città di Staraja Russa per scrivere i Demonî, sorvegliato dalla polizia zarista e infastidito dall’umidità, che finisce per tornarci nel corso degli anni e scriverci anche i Fratelli Karamazov (Polonsky segue il tragitto compiuto da Mitja Karamazov nella fatidica notte del parricidio, in una sovrapposizione tra pagine e vita quasi vertiginosa). C’è il perseguitato Osip Mandel’štam con i suoi versi per Anna Achmatova, nitidi come rintocchi: “Conserva le mie parole per sempre, per il retrogusto di infelicità e di fumo”. Ci sono le povere ombre dei perseguitati politici – sequestrati, torturati, rinchiusi, uccisi – a partire da Trockij trasportato fuori casa in pantofole passando per le bellissime parole di Varlam Šalamov sull’innocenza dei lapis (“Nessuna condanna a morte è stata firmata semplicemente a matita”), fino alla schiera di scienziati – chimici, fisici, medici – che si sono visti la carriera rovinata perché costretti a piegare le proprie idee al materialismo dialettico.

Quando sul pavimento dell’appartamento da cui è iniziato tutto, Polonsky si ritrova a sfogliare l’enciclopedia sovietica, con le sue spaventose distorsioni, ecco che tra le pagine dedicate a Molotov stesso e alle città ribattezzate col suo nome, trova un capello bianco. Evidentemente ogni tanto, negli anni Ottanta, il vecchio apparatchik sopravvissuto a tutto quell’orrore amava rispecchiarsi in quelle pagine bugiarde.

Questa e altre storie infestano i libri.

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Pnin e lo scoiattolo

pninLa vide partire, e tornò indietro a piedi attraverso il parco. Fermarla, trattenerla – così com’era – con la sua crudeltà, la sua volgarità, gli abbaglianti occhi azzurri, i poveri versi, i piedi grassi, e con la sua anima impura, arida, sordida, infantile. A un tratto pensò: se ci si ritrova tutti in paradiso (non ci credo, ma supponiamo di sì), come potrò impedire che mi strisci addosso, che mi strisci sopra quella cosa avvizzita, indifesa, storpia che sarà la sua anima? Ma qui siamo sulla terra, e io, strano a dirsi, sono vivo, e c’è qualcosa in me e nella vita…

Sembrava che fosse arrivato, in modo del tutto inatteso (perché la disperazione umana di rado conduce alle grandi verità), sull’orlo di una soluzione universale, ma venne interrotto da una rischiesta urgente. Uno scoiattolo, sotto un albero, aveva visto Pnin sul sentiero. Con un movimento sinuoso come un tralcio di vite, l’intelligente bestiola balzò sul bordo di una fontanella e, mentre Pnin si avvicinava, protese il musetto ovale verso di lui, con un suono sbruffante piuttosto offensivo, gonfiando le gote. Pnin capì e dopo aver armeggiato un po’ trovò il bottone che doveva premere per conseguire l’esito desiderato. Squadrandolo con disprezzo, l’assetato roditore cominciò subito a gustare la robusta e scintillante colonna d’acqua, e continuò a bere per un bel po’. “Forse ha la febbre” pensò Pnin, piangendo silenziosamente e senza freno, tenendo cortesemente schiacciato il marchingegno per tutto il tempo e insieme cercando di non incrociare quello spiacevole sguardo fisso su di lui. Placata la sete, lo scoiattolo se ne andò senza il benché minimo segno di gratitudine.

(Vladimir Nabokov, Pnin, traduzione di Elena De Angeli, Adelphi 1998, p. 58.)

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Alla ricerca dello sballo supremo

Unknown“15 gennaio 1953. Hotel Colón, Panama. Caro Allen, sono solo di passaggio per farmi togliere le emorroidi. Non mi sembrava il caso di tornare fra gli indios con le emorroidi.” Così, a dir poco in medias res, William S. Burroughs apriva il leggendario epistolario dello yage con Allen Ginsberg, oggi ripubblicato da Adelphi (pp. 215, € 12,00, a cura e con un’introduzione di Oliver Harris, nella splendida traduzione di Andrew Tanzi).

Ma che ci faceva da quelle parti, il mefitico tossico metropolitano?

Qualche anno prima aveva chiuso il romanzo La scimmia sulla schiena ripromettendosi di partire alla ricerca di un Santo Graal psichedelico, un paradiso perduto per chi, oltre che straniero in terra propria, si sentiva esule anche nel proprio corpo. “Lo yage potrebbe essere lo sballo supremo.” The Final Fix, recita l’ultima riga. La visione? L’estasi? La morte? Un po’ tutto questo. “La Città Composita dove tutte le potenzialità umane si distendono in un vasto mercato silenzioso.” Ipse dixit.

A Burroughs gli Stati Uniti andavano stretti e poi non riusciva a pubblicare niente per i contenuti troppo espliciti. E allora via, a bordo di tre caravelle tossiche – i postumi dello yage stesso – la purga (nausea), la chuma (vertigini) e la pinta (visioni), mezzo Cristoforo Colombo e mezzo Che Guevara, un po’ Castaneda e un po’ Indiana Jones, Burroughs si imbarca alla ricerca di questa fantomatica liana dagli effetti magici, in grado di spalancare mondi interiori e universi cosmici, tenendo aggiornato il suo compagno di sballo sul proprio girovagare per l’America Latina.

In realtà, come spiega con dovizia di riscontri Oliver Harris, questo libro tutto è fuorché un epistolario. Le lettere vennero spedite e poi perdute o riscritte dal 1953 al 1963. Si aggiunse un epilogo, dove in ritardo di sette anni Ginsberg finalmente rispondeva raccontando la sua terrificante esperienza con la droga e Burroughs lo liquidava da par suo (“Caro Allen, non c’è niente da temere”: grazie tante), poi un ulteriore poscritto con un’altra breve cartolina di Ginsberg e un’enunciazione di poetica da parte di Burroughs. Oggi il libro si è arricchito di varie appendici, di un gran numero di note e di una cura meticolosa, a infittire un palinsesto già ricco di varianti oscure e di ambiguità narrative (in qualche caso Burroughs, in un crescente vorticoso di schizofrenia, firma le lettere false con il nome vero e le lettere vere con il nome falso di Bill Lee, l’alter ego narrativo).

Che cos’è dunque questo volumetto incandescente e inclassificabile? Le Lettere dello yage sono un diario di viaggio, un trattato di etnopsicofarmacologia, un romanzo d’avventure, un saggio di antropologia, un libro picaresco, una dichiarazione di poetica, un poema in prosa, un ricettario lisergico, una perla di humour nero e tante, tantissime altre cose. Marchettari, catapecchie, dittatori, giungle, pere, vecchi amori omosessuali, sbornie: tutto quanto finisce nel calderone ribollente di una prosa esilarante e cinica. Tanto per dare un’idea: “Sempre la solita Panama. Troie e papponi e puttanieri. ‘Vuoi bella ragazza?’ ‘Signora nuda balla?’ ‘Mi guardi fottere mia sorella?’ Ci credo che mangiare costa tanto. Non ce la fanno a tenerli in campagna. Vogliono venire tutti nella grande città a fare i papponi.” O ancora: “Sulla barca ho parlato con un uomo che conosce la giungla ecuadoregna come la sua fava. Sembra che i commercianti della giungla depredino periodicamente gli auca (…) e si portino via le donne, che tengono in gabbia a scopo sessuale. È interessante. Magari riesco a catturare un ragazzino auca. Ho ricevuto istruzioni precise su come assalire gli auca. (…) Copri entrambe le uscite della casa auca e spari a tutto quello che non ti va di scoparti.”

Forse la droga non gli regalò una volta per tutte il diritto alla visionarietà, magari gli sciamani erano solo dei vecchietti cialtroni e lo yage una pianta allucinogena che oggi alimenta una fiorente industria turistica del trip, di sicuro a leccarsi i polpastrelli mentre si sfoglia questo piccolo capolavoro beffardo si rischiano le visioni: pare che qualche vecchio beat le abbia cosparse con un rimasuglio di ayahuasca. Buon viaggio, è il caso di dirlo.

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BookCity

Questo fine settimana a Milano ci sarà BookCity.

Io parteciperò a due cosucce.

Sabato sera leggerò qualcosa di inedito durante la serata al Museo della Scienza e della Tecnica.

Domenica mattina, tutto solo, farò una lettura a cui tengo molto, una “Giornata dell’Ingegnere” cucita con una serie di estratti dai libri di Carlo Emilio Gadda, come da splendida locandina (e grazie a Tullio Pericoli che ci ha concesso di usare il magnifico disegno).

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Morte di un dittatore

 

 

 

 

 

 

 

‘E improvvisamente, il cinque marzo, Stalin morì. Quella morte venne a intrufolarsi nel gigantesco sistema di entusiasmo meccanizzato, d’ira e d’amore popolare, stabiliti su ordine del comitato di rione.
Stalin morì senza che ciò fosse pianificato, senza istruzione degli organi direttivi. Morì senza l’ordine personale dello stesso compagno Stalin. Quella libertà, quella autonomia della morte conteneva qualcosa di esplosivo che contraddiceva la più recondita essenza dello Stato. Lo sconcerto invase le menti e i cuori.
Era morto Stalin! Gli uni furono presi da un sentimento di dolore: in alcune scuole gli insegnanti fecero inginocchiare gli alunni e, postisi loro stessi in ginocchio, spargendo lacrime diedero lettura del comunicato ufficiale sul decesso del Capo. Durante le assemblee funebri, nei ministeri e nelle fabbriche, molti furono presi da attacchi isterici, si udivano pianti convulsi e grida terrificanti di donne, alcune cadevano svenute. Era morto il grande Dio, l’idolo del ventesimo secolo, e le donne singhiozzavano…
Altri vennero presi da un senso di felicità. Le campagne, che soffocavano sotto il peso del piombo del pugno staliniano, tirarono un sospiro di sollievo.
Il giubilo invase milioni e milioni di persone rinchiuse nei lager.
… Colonne di detenuti stavano andando al lavoro nel buio profondo. L’abbaiare dei cani poliziotto copriva il ruggito dell’oceano. E all’improvviso, come la luce dell’aurora boreale, cominciò a filtrare tra i ranghi: “È morto Stalin!”. Decine di migliaia di persone sotto scorta si passavano l’un l’altro la notizia, sussurrando: “è crepato… è crepato”, e quel sussurrare di migliaia e migliaia cominciò a fischiare come un vento. La nera notte regnava sulla terra polare. Ma il ghiaccio sul mare Artico si era rotto, e l’oceano ruggiva.
Non furono pochi, tra i dotti così come tra gli operai, coloro che a quella notizia mescolarono al dolore il desiderio di ballare dalla gioia.
Un turbamento si produsse nell’attimo in cui la radio trasmise il bollettino della salute di Stalin: “respirazione Cheyne-Stokes… urine… polso… pressione sanguigna…”. Il capo divinizzato svelava d’un tratto la sua vecchia carne impotente.
Stalin è morto! V’era in quella morte un elemento di libertà repentina, infinitamente estranea alla natura dello Stato staliniano.’

Vasilij Grossman, Tutto scorre…, traduzione di Gigliola Venturi, Adelphi 2010.

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