Contagio, pandemia, rassegnastampite

tumblr_o35bzspW0w1qjpgmeo1_500Sono uscite un po’ di recensioni al Piccolo dizionario delle malattie letterarie (Italo Svevo). Ne raccolgo qualcuna:

Qui Pierluigi Battista sul Corriere della Sera.

Qui Guido Vitiello sul Foglio.

Qui Mario Baudino sulla Stampa.

Qui Marco Belpoliti, su Tuttolibri della Stampa.

Qui Alfonso Berardinelli sull’Avvenire.

Qui Marilù Oliva sull’Huffington Post.

Qui Jacopo Cirillo su Finzioni.

Qui Luca Ricci sul Messaggero.

Qui Nicola Vacca su Satisfiction.

Qui Giulio Passerini su Panorama. E qui sul Dailybest.

Qui Marco Ciriello sul Mattino.

Qui Tommy Cappellini sul Corriere del Ticino.

Qui Tamara Baris sul magazine della Treccani.

E qui, in ordine sparso, quella di Raffaella De Santis su Repubblica, Luigi Mascheroni sul Giornale, e un po’ di altre.

E nemmeno io mi sento tanto bene.

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CÉLINE IN LOVE

5379721037_9e13ab4247_o(Ho scritto una recensione su Lettere alle amiche di Louis-Ferdinand Céline, Adelphi.)

… L’amore, già. E amoroso sapeva esserlo, come sa bene chiunque abbia letto il Viaggio al termine della notte e l’estremo commiato – dolcissimo, in un libro furibondo – con Molly: “L’ho abbracciata Molly con tutto il coraggio che avevo ancora nella carcassa. Avevo una gran pena, autentica, una volta tanto, per il mondo intero, per me, per lei, per tutti gli uomini. È forse questo che si cerca nella vita, nient’altro che questo, la più gran pena possibile per diventare se stessi prima di morire.” Ecco allora tornare in libreria, onerato dalla pena amorosa, il mostro strisciante, mellifluo, esilarato, l’angolo cieco del Novecento, come una bestia circondata dalle belle: di nuovo nel catalogo Adelphi, che già annovera la sua tesi di laurea (Il dottor Semmelweis), ma questa volta con una serie di carteggi sessuali e sentimentali, ossia le Lettere alle amiche, un interessante libretto a cura di Colin W. Nettelbeck, in verità pubblicato da Gallimard nel 1979 (traduzione di Nicola Muschitiello, pp. 257, € 15)…

(Continua a leggere sul blog di Pixartprinting.)

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Piccolo dizionario delle malattie letterarie

Svevo_Rossari_OKMC1È appena uscito per la rinata Italo Svevo il mio Piccolo dizionario delle malattie letterarie (con una prefazione di Edoardo Camurri, pp. 60, 10 €), un catalogo di malanni tipici delle lettere. Inutile dire che io ce li ho tutti.

Qui un’anteprima sul sito del magazine del Sole 24 Ore, che ha ospitato qualche anno fa il primo vagito di questo libretto (grazie a Christian Rocca e ad Antonio Sgobba).

Qui un’altra anteprima sul sito del Libraio.

Questo un estratto della mia postfazione:

La letteratura è una malattia contratta nell’infanzia, quando il corpo è più gracile e indifeso (per non parlare della mente, vulnerabile e suscettibile agli stimoli). Tu sei lì, ancora imberbe, ed ecco che un padre o una madre o un amico, o magari perfino un pediatra, ti allungano un libro per distrarti e superare il morbillo o una brutta influenza. Salgari, Dumas, Roald Dahl. Morbo contro morbo, chiodo scaccia chiodo, omeopatia. E tu stavi così bene con il tuo videogame.

Funzionerà?

Lo apri, ad ogni modo. Leggi, ti piace, ti entusiasma. La scarlattina sarà anche passata, ma un altro virus è entrato nel tuo corpo. Non sei più lo stesso, vuoi leggere ancora, cerchi un altro farmaco (ma phàrmakon, si sa, voleva dire anche “veleno”). Passi ad altri scrittori, col tempo affronti i russi, Baudelaire, Neruda, quindi tutto il resto.

E poi, terribile degenerazione, vuoi provare a farlo anche tu. Sei pallido, emaciato, semitisico (fumi Gauloises senza filtro: fanno schifo, ma l’hai letto in un romanzo francese). Lo spirito imitativo ti ha posseduto: tremi di una febbre dostoevskijana (basta la parola “morale” a farti entrare in deliquio), vacilli per un male tolstojano (pensi a Dio, a volte non in termini lusinghieri), senti la vibrazione di Emily Dickinson (“As One does Sickness over
 / In convalescent Mind,
 / His scrutiny of Chances
 / By blessed Health obscured…”). Allora prendi la penna e, invece di chiedere aiuto a qualcuno, scrivi una poesia.

Sei spacciato?

Buona influenza.

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THE END OF THE TOUR – IL

the-end-of-the-tour2(Ho scritto per il magazine del Sole 24 Ore qualche riga su The End of the Tour, il film su David Foster Wallace uscito da poco nelle sale cinematografiche.)

(… ) Uno scrittore di successo, perseguitato da una feroce depressione, dopo aver lasciato innumerevoli pagine tormentate, cede e si toglie la vita. Il pitch verrà rifiutato da tutti, ma ehi aspetta: non se tratta del nuovo Dave. Non c’è nulla come una morte prematura – droga, suicidio, malattia, alcol: possibilmente – in grado di svuotare ciò che l’ha preceduta. Un po’ per digerire e esorcizzare il rimosso («Vedi, si sapeva: era già lì»), un po’ per martirizzarlo (l’agiografia, si sa, è un genere postumo), come uno Sherlock Holmes anfetaminico il pubblico ripercorre a ritroso ogni parola dello scrittore (anzi della persona, incarnata grazie al decesso) per trovare gli indizi del gesto. (…)

Continua a leggere sul sito di IL.

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New York Stories – IL

Times_Square_illumination_1921-1031x576(Ho scritto una breve recensione di New York Stories per il magazine del Sole 24 Ore.)

È un mito: la città, le stanze e le finestre, le strade che sputano vapore; per ognuno, per tutti, un mito diverso, testa d’idolo dagli occhi di semaforo che ammiccano verde tenero, rosso cinico.

Questa isola che galleggia su acqua di fiume come un iceberg di brillanti, chiamatela New York, chiamatela come vi pare; il nome non ha importanza poiché, venendo dalla più greve realtà dell’altrove, si è solo in cerca di un luogo dove nascondersi, dove fare un sogno in cui si abbia la prova che forse, dopo tutto, non si è un brutto anatroccolo, ma si è meravigliosi, degni di amore.

Continua a leggere sul sito del Sole 24 Ore.

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Let’s call the whole thing translation

03c61fa6031b9df2b6257af3b1375856(Mariateresa Pazienza ha avuto la bontà di farmi qualche domanda per il sito Casa di Ringhiera. Qui tutta l’intervista.)

(…) Come ho detto, bisogna venire attratti da quella zona di confine tra le lingue: terra di nessuno, nebulosa impalpabile, passaggio glottologico, momento psichico, idioletto cosmico, gioco del telegrafo, mettila come ti pare, let’s call the whole thing translation. Poi, da un punto di vista pratico, bisogna studiare, avere orecchio, avere cura, sentire le parole, correggere bozze, rivedere traduzioni, chiedere una prova di traduzione, superarla, affrontare un testo, perseverare, tradurre molto (anche con mestiere, non solo con passione), imparare dagli errori (che sono sempre tanti), arrivare al punto in cui ti puoi definire un traduttore passabile, e comunque resti sempre un dilettante: ti offrono Nabokov e ti metti a piangere perché sei un miserabile (e se leggi come Nabokov ha tradotto l’Onegin vedi che perfino lui avrebbe dovuto piangere: immagine che mi pare emblematica per definire questo lavoro: annichilisce perfino l’autore di Lolita). Ad ogni modo non diventi mai un traduttore e basta: fai sempre un mucchio di altre cose. (…)

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Mario Maffi, rabdomante di storie

 

Maffi_Mario_small“Ho sempre pensato che certi luoghi sono calamite, che ti attraggono se passi nei paraggi.” Con queste parole in epigrafe del Nobel Modiano, si apre l’introduzione al nuovo libro di Mario Maffi, Città di memoria (il Saggiatore, 357 pp., 19,50 €), il più recente tassello di un lavoro di mappatura ed esplorazione che porta avanti da una vita. “Quello di Modiano è stato un caso fortuito,” racconta divertito in un bar di Milano. “Il libro era già in bozze.”

Figlio di un intellettuale torinese che traduceva libri dall’inglese e dal francese, un antifascista che aveva imparato il russo in carcere ed era diventato amico di Cesare Pavese al confino in Calabria, Mario Maffi è cresciuto tra i libri, affascinato dalla traduzione (una parte del suo lavoro: l’ultima curatela è un tascabile del Popolo degli abissi, con fotografie inedite scattate da Jack London in persona), e dalle lezioni di Nemi D’Agostino, personalità carismatica con cui si laurea negli anni della contestazione. Dalla tesi nasce l’esordio, La cultura underground, pubblicato da Laterza (ancora in catalogo presso Odoya). “Ho vinto il Premio Libro Giovane per l’Unione Italiana per il Progresso della Cultura,” ricorda davanti a un bicchiere di rosso. “Ricevo una telefonata dall’editore: ‘Ma non ti sei presentato ieri sera alla consegna del premio’. Invece io non sapevo nulla.”

Il primo viaggio negli Stati Uniti è del 1975. “Alla Penn University, nel cuore della Pennsylvania agricola, dove lavoravo sul movimento operaio.” Con La giungla e il grattacielo, comincia a definire meglio la sua identità di autore che cerca di portare la pagina sulla strada. Ma è con Nel mosaico delle città, scritto in inglese – ottenendo un contratto da Macmillan, poi disatteso, e autotraducendosi in italiano – che la scrittura cambia davvero.

“Quando ho cominciato a lavorare sul Lower East Side, nei primi anni ’80, le suggestioni erano troppo forti, sia nell’immediato, sia riguardo al retroterra storico: c’era una densità stupefacente di memoria.” Comincia a raccogliere le esperienze della comunità portoricana e non solo, metabolizzando il materiale in un altro libro, L’isola delle colline. Stratificazioni storiche, incontri, perfino un’aggressione: tutto contribuisce a una narrazione unica della città. Scopre poeti come Miguel Piñero e Pedro Pietri (“Cimiteri a sinistra
/ cimiteri a destra
/ cimiteri davanti
/ cimiteri dietro /
miglia e miglia e miglia
/ di mute pietre tombali
/ è impossibile avere un’erezione /
a Long Island”). Porta il secondo in Italia per una tournée insieme a Paolo Rossi.

Documentato come Iain Sinclair, ma dotato di una prosa più chiara; vagabondo come William Least-Heat Moon, ma con una passione politica più intensa, Mario Maffi è un patrimonio un po’ trascurato delle nostre lettere, sebbene diversi scrittori – Paolo Cognetti, ad esempio – abbiano fatto tesoro della sua lezione. Non ha una prosa boriosa, ma è stato ordinario di Letteratura e cultura angloamericana all’Università degli Studi di Milano (“La mia vita accademica è sempre stata un po’ sul filo del rasoio: credo di essere stato considerato un po’ strano. Ma, a parte qualche ostilità aperta, guardato con rispetto”). Non è un romanziere, ma nei suoi libri trovi sepolti – o forse vedi sbocciare – centinaia di romanzi. Non è uno scrittore di viaggio, eppure gironzola come Teju Cole. “C’è proprio questa volontà di trovare dei tramiti, dei sensori, e di essere tu stesso un sensore. Non mi interessava chiudermi dentro ai testi, rinchiusi a loro volta dentro se stessi.” Come un rabdomante di storie, Maffi si aggira per i luoghi in cerca di episodi e rimanenze della storia e della memoria, sospesi in una sacca di tempo – uno usable past – in attesa di venire riportati alla luce. È capace di raccontarti la lotta di classe tra i cowboy, così come la luce che taglia un caffè a una certa ora del giorno.

Questo libro inclassificabile è una sintesi del lavoro che svolge da anni. È come se fosse partito da un racconto impersonale della letteratura e piano piano si fosse calato dentro a quel mondo, fino a introiettarlo in profondità. Qui affronta sei metropoli. C’è il ritorno al Lower East Side, prediletto territorio d’esplorazione, ripercorrendone passo dopo passo la storia a partire dai grandi tenements stipati di immigrati e via via fino agli Settanta. C’è l’esplorazione di New Orleans, già sfiorata in un altro libro maestoso come Mississippi (che in Francia, con Grasset, gli è valso il Premio Ptolémée de Géographie). C’è il vagabondaggio sotto le ceneri della Comune, non tanto come flâneur, quanto come una sorta di maieuta metropolitano, che aiuta la città a esprimere ciò che custodisce, seppellito sotto l’affanno dei giorni. Ci sono le città gemelle di Manchester e Salford, per raccontare il massacro di Peterloo che ispirò versi a Shelley e a Byron contro un politicante (“Qui giacciono le ossa di Castlereagh / Fermatevi, viaggiatori, e pisciate”). E infine c’è l’amata Londra.

“Se devo pensare a un altro libro, faccio fatica,” confessa, facendo gli scongiuri con un sorriso. “Lo sento come un po’ come la chiusura di un percorso. C’è l’aspetto di ricerca, far riaffiorare i materiali. E poi quello di esplorazione in prima persona, di coinvolgimento sentimentale. La cosa buffa è che le prime cose che ho scritto risalgono a quando avevo sedici anni. Le ho pubblicate su un giornaletto del movimento cooperativo svizzero a cui era abbonato mio nonno. La prima era intitolata Germania e la seconda Parigi: in fondo, erano già diari di viaggio.”

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IL CREMLINO NERO DI ANDREA TARABBIA – IL

11896040_10207508581577238_6450497653055747196_nUcraina, fine anni settanta, alla viglia di Natale il corpo di una bambina viene ritrovato in un fiume. L’assassinio è attribuito a un balordo, mentre è il primo di una serie di circa cinquantasei violentissimi omicidi – torture, mutilazioni, cannibalismo – perpetrati di lì a trent’anni da Andrej Čikatilo, passato ingloriosamente alla storia come il “mostro di Rostov” o al massimo con la definizione, tanto efficace quanto grossolana, di un vecchio thriller uscito decenni fa, dal titolo “il comunista che mangiava i bambini”.

Il nuovo romanzo di Andrea Tarabbia, però, non è la ricostruzione giornalistica delle gesta di uno tra i più efferati assassini mai esistiti, così come il precedente (Il demone a Beslan) non era solo la ricostruzione dell’assedio alla scuola cecena. Tarabbia si avvicina a un fatto attirato da un richiamo morale e per nulla retorico (dimenticate le candele accese sui balconi), e lo usa per indagare – senza alcunché di morboso, miracolo – il Male nella e della Storia attraverso la scrittura, in una tradizione che va dai Demoni di Dostoevskij fino a Carrère o Vollman.

(Continua a leggere sul sito del Sole24Ore.)

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Il gatto di Platone e altri animali

sleeping_cat_tattoo_by_ivvi_qol-d48plnf(Qualche tempo fa mi sono messo a scrivere poesie per ragazzi. Traducevo molto e in pausa, mangiando qualcosa, mi divertivo a tirare fuori qualche rima alla Scialoja, con l’idea magari di farle leggere ai miei nipoti. Col tempo, in attesa di un illustratore e di un editore, le poesie sono rimaste lì a formare un libretto dal titolo Il gatto di Platone e altri animali e i miei nipoti sono arrivati quasi in età da rave, allora ne posto qualcuna qui.)

 

Il gatto di Platone

si fa una dormita:

ha rubato al padrone

il senso della vita.

 

*

 

Sullo stelo

per i fans

l’ape fa

lap dance.

 

*

 

L’ippopoeta nel talamo

scrive t’amo con il calamo.

E le ippopotame lo amano.

 

*

 

Il ragno nero e peloso

lo cacciavano sempre via.

È diventato pensoso

e discetta di filosofia.

 

*

 

La mosca bianca

e la pecora nera

giocano a scacchi

quando scende la sera.

 

*

 

(Il bruco innamorato)

 

Non è la polpa buona,

che cerca nella mela

ma solo un’altra volta

il tocco lieve di Eva.

 

*

 

Nella palla di vetro

dello zingaro ucraino

il pesce rosso tetro

vede il suo destino.

 

*

 

Quando il bruco

balla il tuca tuca

faticando a coordinarsi

s’intorciglia con la bruca.

 

*

 

Se il lupo luma

la luna, all’una

la luna s’allupa.

 

*

 

Il grido a squarciagola

nella vasca da bagno

della donna ignuda e sola

attende, bieco, il ragno.

 

*

 

Risale il salmone

tra una rapida e un sasso

per guardare il tonno

dall’alto in basso.

 

*

 

Il gatto

di Matisse

dipinge con

le sue vibrisse.

 

*

 

Quando gli si rompe il radar

al pipistrello resta il tavor.

 

 

 

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In missione per i piccoli maestri

new_homeHo fatto tanti laboratori di scrittura, tante lezioni sui libri, pagato e non (più “non”), in giro per le scuole e non sempre è gratificante. A volte l’insegnante che ha organizzato è svogliato, altre volte i ragazzi sono troppo giovani o troppo grandi per il libro che ti hanno proposto di raccontare, altre volte sei tu a essere distante e a non metterci nulla, perché la giornata è nata male o piove o hai la febbre o hai il pensiero chissà dove, magari alla morosa delle medie. Insegnare, raccontare, non è poi così diverso da qualsiasi altro rapporto e non sempre ci si trova, non sempre ci si intende. Per fortuna, vorrei dire.

Allo stesso tempo, anche le esperienze peggiori ti mostrano qualcosa: le scuole dissestate, i corridoi bunker, il rimbombo delle grida nelle aule cavernose che speravi di esserti lasciato alle spalle, il ricordo tuttora piacevolissimo della campanella che segna la fine della tortura per tutti, gli zaini sbilenchi e strabordanti, le facce vacue, le facce simpatiche, le facce con il moccio che cola, le facce assopite, i primi della classe, i teppistelli, la loro attenzione spasmodica per il display, la mia attenzione spasmodica per il display, tutte cose alle quali gli insegnanti sono abituati. Capisci anche benissimo la fatica dei professori, visto che non arrivano lì con il vantaggio di chi non deve dare voti e la nomea pomposa di scrittore (“Ehi, quei ragazzetti se la bevono, mica lo sanno che vendo tre copie al mese!”). E lo fanno tutti i giorni.

Qualche giorno fa avevo quell’umore lì. Sono corso in stazione in bici vestendomi troppo, sono arrivato lì come uscito da una sauna nello smog assolato di Milano, mi sono precipitato verso il treno dopo aver fatto una coda idiota alla macchinetta (tutti quelli che ci precedono sono idioti, finché non ti accorgi di avere uno che sibila alle spalle), e poi il treno non voleva saperne di partire, inchiodato lì. Convinto di non fare in tempo, ero già pronto a mettermi con striscioni e cartelli tra i pendolari incazzati in quei talk a microfono aperto, finché in discreto ritardo non s’è mosso e abbiamo attraversato una magnifica periferia nebbiosa, le vecchie fabbriche dismesse ingarzate di bianco, un muretto con sopra scritto: “Ho bisogno di te”, la stasi (non Stasi) dell’ex Stalingrado milanese. Il pensiero che io trafelato non avessi in quel momento la passione necessaria per raccontare i Sessanta racconti di Dino Buzzati, in missione per i Piccoli Maestri, s’è come attutito. E infatti arrivato lì, non lo so bene cos’è successo, ma so che c’è stata quell’intesa lì, quella che non avevo di certo con la morosa delle medie. Ed è successo anche che qualche giorno dopo i ragazzi – forse, perché no, imbeccati da una prof – mandassero una letterina piombata soavemente nella mia casella mail. Come cantava il poeta, now’s the time for your tears.

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