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Non sono Percival Everett

UnknownEsce in questi giorni per Nutrimenti un nuovo libro di Percival Everett, si intitola Sospetto e appartiene alla vena più classica e lineare di questo straordinario scrittore (il quale, nel frattempo, come il vulcano di cui parla Giorgio Vasta in questa recensione uscita su “Repubblica”, ne ha già partorito un altro). Sono felice che questa nuova traduzione sia firmata, oltre che da Federica Bonfanti, da un amico scrittore come Paolo Cognetti.

Ho tradotto sei libri di Percival Everett (i miei preferiti restano Glifo e Ferito, più Il paese di Dio, che tanto ha in comune con Django Unchained) e credo di non essermi mai trovato così in sintonia con un autore. Mi piace la sua imprevedibilità, il suo umorismo paradossale, la sua ironia sorniona, la profonda umanità dei suoi personaggi, la prosa sempre in bilico tra una pulsione sperimentale e una più classica. Spero che questo libro abbia la fortuna che merita.

Qui si trova un mio vecchio pezzo intorno alla sua opera pubblicato da “Minima et Moralia”. E qui qualche appunto sulla traduzione di Glifo uscito per “La nota del traduttore”. Per tutto il lavoro su questo autore devo anche ringraziare Leonardo G. Luccone, che all’epoca dirigeva la collana “Greenwich” di Nutrimenti. Mi fermo qua, anche in omaggio a uno scrittore che – sublime paradosso, considerata la sua prolificità – in pubblico ha fatto della laconicità un marchio inconfondibile. Non posso dimenticare l’eterna domanda che un professorone di letteratura americana gli fece durante una presentazione, alla quale dopo un momento di riflessione Percival rispose con un lapidario: “I’m just a cowboy”.

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La ragazza dei cocktail

ragazza-dei-c_800x600È uscita per Isbn edizioni una traduzione a cui tengo molto: il libro inedito di un maestro del noir, James M. Cain, rinvenuto e pubblicato a più di trent’anni dalla morte.

La ragazza dei cocktail (in originale The Cocktail Waitress, cura e postfazione di Charles Ardai) è un romanzo perfetto che non ha davvero nulla da invidiare a classici come La morte paga doppio o Il postino suona sempre due volte e non per nulla è stato definito da Stephen King “l’evento letterario dell’anno”.

Qui la pagina sul sito dell’editore, con incontri e recensioni (a Milano verrà presentato il 7 marzo in Santeria, da me e Luca Crovi).

Qui la postfazione di Ardai in inglese.

Qui una lunga, splendida intervista a Cain pubblicata sulla Paris Review.

Buona lettura.

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La stanza di Rodinsky

rr(Qualche tempo fa è uscito un libro straordinario per l’editore Nutrimenti, in una meritoria e coraggiosa collana diretta da Filippo Tuena, “Tusitala”. Prima di tradurlo, avevo scritto qualche riga, che pubblico ora qui di seguito. Qui si trova anche una splendida recensione di Michele Lupo e qui un bel pezzo del Guardian.)

L’antefatto di questo libro (Rachel Lichtenstein e Iain Sinclair, La stanza di Rodinsky, Nutrimenti 2011, pp. 432, € 19,50) è un vero e proprio giallo. Alla fine degli anni ’60, uno strampalato studioso della Cabala, che conduceva una vita da recluso sepolto sotto una montagna di simboli e codici e viveva nel sottotetto di una sinagoga nel cuore del quartiere ebraico di Londra (per l’esattezza in Princelet Street), sparì nel nulla. Vent’anni dopo la sua camera venne riaperta e trovata intatta, nello stesso identico modo in cui l’aveva lasciata il giorno in cui aveva deciso di svanire. Tutto quanto, calzature e giornali e suppellettili, si trovava nella medesima posizione in cui lui l’aveva abbandonata, sebbene coperto da un dito di polvere.

Il tentativo disperato di questo libro è rimuovere quello strato di polvere.

Artefice ne è la giovane artista Rachel che, in cerca di notizie sui propri antenati e sul quartiere, si imbatte in questo mistero: che fine ha fatto David Rodinsky e perché è scomparso? Quali misteri nasconde la camera abbandonata? Da qui parte una vera e propria quest, un’indagine che sarebbe piaciuta a Edgar Allan Poe, tanto irrazionale quanto avvincente, che la porta da un angolo all’altro di Londra e dell’Europa, da un momento all’altro della storia, di personaggio in persona, per ricostruire la vita di un personaggio eccentrico che sente profondamente affine.

Non solo. Questa ossessione trova un controcanto nei brani di Iain Sinclair, scrittore affermato che viene coinvolto nel progetto suo malgrado e funge quasi da narratore esterno, commentatore ironico, chiosatore coinvolto e allo stesso tempo distaccato. I due scrittori, con le loro differenze (alla prosa semplice e efficace della Lichtenstein si contrappone quella lirica e densa di Sinclair in una felice alternanza di stili), diventano personaggi delle rispettive pagine, in un gioco di scatole cinesi o di specchi, che avvolge in modo estremamente coinvolgente il lettore. Alla ordinata catalogatrice delle ultime scoperte si contrappone l’esploratore di Londra, lo scrittore più arduo, fanatico delle stratificazioni geografiche e letterarie, per creare uno straordinario duetto.

Che cos’è dunque questo libro? È un romanzo con tanti romanzi all’interno, è una detective story (con tanto di agnizioni improvvise), è un saggio di psicogeografia, è un libro di storia della cultura ebraica londinese e non solo, è un appassionante saggio sulla cabala e il misterismo, è un libro-collage denso di splendide illustrazioni (la foto della camera in questione è indimenticabile), è una fiaba dostoevskijana, è una novella yiddish, è un esperimento di auto e nonfiction in cui due scrittori si rimbalzano la palla con risultati sorprendenti. È insomma un librido inclassificabile, proprio per questo tanto più prezioso.

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L’estate dei barbari

Esce in questi giorni per Einaudi Stile Libero L’estate dei barbari (pp. 560, € 21), un romanzo di satira sociale scritto da Héctor Tobar e tradotto da me medesimo.

Qui la pagina di presentazione sul sito Einaudi.

Qui una recensione apparsa sul “New York Times”.

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È uscito un libro che ho tradotto. Si intitola D’estate, l’ha scritto Tom Darling e lo pubblica Fandango.

Qui la scheda con la sinossi.

Qui una recensione di Tiziano Gianotti apparsa su D di Repubblica.

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Arrivano i Sister

È uscito un antiwestern divertente che ricorda molto i film dei fratelli Coen. Si intitola Arrivano i Sister, l’ha scritto Patrick deWitt, l’ha pubblicato Neri Pozza e l’ho tradotto io. Qui il booktrailer. Qui un’intervista all’autore.

Questa è la bandella:

Far West, 1851. Tra le illustri dimore di Oregon City svetta la grande villa di un uomo potente dai tanti intrallazzi e dalle altrettante preoccupazioni. È noto come il Commodore poiché nessuno conosce il suo vero nome e, nella sua dimora, dispensa le istruzioni per i “lavoretti” dei suoi sicari prediletti: Charlie ed Eli Sister, fratelli di sangue e di crimine. L’ultimo “lavoretto” riguarda un tipo bislacco, un cercatore d’oro chiamato Hermann Kermit Warm. Calvo, barba rossa incolta, il ventre strabordante di una donna incinta, Warm passa ore e ore nei saloon di San Francisco, pagando il whisky con polvere d’oro e dilettandosi con la stramba lettura di libri di scienza e di matematica. Il compito dei fratelli Sister è chiaro: trovare Warm e accopparlo, a mo’ di monito per chiunque si azzardi a fare quello che Warm ha osato: derubare un uomo potente. Ma l’incarico questa volta non è dei più facili. Warm sarà pure un tipo bizzarro, ma gira armato di una piccola Colt appesa a una fascia legata in vita e ha tutta l’aria di voler difendere a tutti i costi il suo soggiorno in questo mondo. La strada per Sacramento, poi, dove il cercatore ha la sua miniera, è lunga e per niente agevole. Avverando i timori di Eli, il viaggio dei Sister si rivela una vera e propria odissea. Lungo il sentiero per la California i due fratelli passano da una peripezia all’altra incontrando un sedicente dentista, una tisica tenutaria di saloon e una quantità di altri personaggi tra i più folli delle terre di frontiera.

 

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Perdere alla lettera. Tradurre Gertrude Stein.

(Qualche tempo ho avuto l’onore e l’onere di tradurre un libricino di Gertrude Stein, Flirtare ai grandi magazzini, Archinto 2010. Questa è la mia breve nota alla traduzione.)

Tradurre (e forse leggere) Gertrude Stein rischia di fare venire le vertigini. Letteralmente. Seguire in originale e poi a schermo e quindi su carta, la spirale turbinosa di questo pensiero scritto genera un senso di smarrimento. Un attimo dopo subentra una sorta di stupore esilarato e infine, con la gratitudine del naufrago che rinuncia a stare a galla, un abbandono alla corrente.

Anacoluti, paronomasie, variazioni sul tema, ecolalia, rime interne, giochi: il catalogo è questo. Con una scrittrice rivoluzionaria, ardita, impavida come lei ci vuole altrettanto coraggio e sicuramente un po’ d’incoscienza. Là dove la poesia si confonde con la prosa, là dove una rosa è una parola (erosa, certo) ma anche un piccolo trattato di filosofia del linguaggio, là dove – nel beffardo rompicapo intitolato Guillaume Apollinaire – potrebbero addirittura essere rintracciabili delle vere e proprie anamorfosi interlinguistiche (non a caso, il primo verso “Give known or pin ware” nasconde proprio il nome del poeta surrealista), là si annida questo libricino potente e avanguardistico, difficile e giocoso.

Gertrude Stein è prima di tutto una interprete di flussi mentali, una pittrice di cubismi saggistici, una traghettatrice estrosa che ha preso l’alfabeto e l’ha scaraventato sulla pagina come un bambino capriccioso (eppure consapevole), buttando a mare secoli di sintassi efficace e di bello stile, per scolpire i concetti attraverso un uso ossessivo delle ripetizioni sulla pietra della pagina. Qui si è optato per una traduzione che provasse a ritrovare la sbalorditiva festosità dell’originale seguendo prima di tutto il richiamo del suono. Per dirla con una battuta che forse a lei non sarebbe dispiaciuta: anche l’orecchio vuole la sua parte o la sua arte. È possibile che Gertrude Stein incarni il sogno e l’incubo di ogni traduttore, visto e considerato che quando stai sbagliando sei nel giusto e quando imbrocchi il significato perdi il significante.

E se perdi tutto alla lettera, la lettera la prendi.

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