Parecchi anni fa arrivò la telefonata di un editor che mi proponeva di tradurre uno scrittore mai sentito prima. Gli chiesi di mandarmi il manoscritto e cominciai a leggerlo subito. Era una stampata senza una fotografia e non avevo nemmeno googlato il tizio. Il romanzo parlava di un professore e di una pittrice in crisi, raccontati dal punto di vista di un bambino piccolissimo, genio inverosimile in grado di leggere Greimas e di fare giochi di parole intorno a tutto lo scibile immaginabile. Mi stavo divertendo come un pazzo, quando a un tratto, dopo almeno cento pagine, il bambino si riferiva in modo imprevisto al colore della sua pelle e all’improvviso feci un sobbalzo. Non l’aveva specificato in nessun punto, ma la famigliola che per pigrizia avevo immaginato bianca era in verità nera, così come nero era il protagonista. Lì l’autore aveva messo una nota, che più o meno recitava: “Ah, fino ad ora avevate creduto che io fossi bianco?”. Era la prima volta che un autore giocava in modo così abile con il mio ruolo di lettore. Accettai la traduzione. Il libro s’intitolava Glifo, fu un discreto successo e io mi occupai in seguito di altri cinque suoi romanzi.
Non so dire che cosa abbia voluto dire per me lavorare su Percival Everett. Tradurlo è stato un divertimento, una fatica, un atto d’amore, una rivelazione, un inferno. Ma non solo. In quell’equilibrio sospeso e insolito che attraversa tutta la sua opera, tra sperimentalismo e tradizione, tra umorismo e tragedia, ho trovato una mia strada, qualcosa che mi parlava di quello che avrei voluto scrivere io (con risultati senz’altro più incerti e mediocri). In sintesi, parlava di me, parlava con me: grazie ai giochi linguistici, all’umorismo talvolta demenziale, alla nota cupa accostata a quella leggera, al porre questioni e non dare mai soluzioni, al piglio divertito con cui affrontava i problemi. Diversi passaggi dell’Unico scrittore buono è quello morto non sarebbero mai nati (o comunque non sarebbero nati così) senza l’attraversamento, parola per parola, di quei sei libri.
Adesso Percival Everett torna nelle librerie italiane con una nuova raccolta di racconti: In un palmo d’acqua (Nutrimenti, pp. 190, € 17). E di nuovo, nonostante le tante pagine che ho scritto su di lui, sono qui a chiedermi cosa mi piaccia tanto della sua scrittura, perché faccia sempre il suo nome quando mi chiedono qual è lo scrittore che ho tradotto a cui mi sento più vicino. Qui il lato più temerario del suo stile è accantonato in favore di una grande linearità. La pagina è piana, le storie semplici, per quanto vi sia sempre un tremito sottotraccia, una vibrazione nascosta che da un momento all’altro potrebbe slogare la sintassi o far apparire, come in Deserto americano, un uomo senza testa in grado di camminare e parlare (e qui, in effetti, appare). Anche quando è pulito, Everett lo è solo in modo apparente e tradurlo non è per nulla facile. Ha un rapporto conflittuale con il linguaggio, anche quando lo tiene a bada. Vi si avvicina come i suoi personaggi si avvicinano ai tanti cavalli che popolano i suoi romanzi: ci vuole rispetto, equilibrio, perché da un momento all’altro potrebbe capitare qualcosa d’inconsueto e un po’ vogliamo che accada (la paura è desiderio). L’esitazione compare anche nei dialoghi. Anni fa ho chiacchierato un po’ con Percival Everett. Eravamo alla Fiera di Torino, avevo appena tradotto un suo libro e ci siamo messi a scambiare un po’ di idee intorno alle cose che aveva scritto. È stato buffo. Lui era gentile, comprensivo, ma alla lunga, dopo avere esaurito tutte le osservazioni pseudobrillanti che avevo da sfoggiare, è sceso un silenzio che mi è risultato stranamente familiare. Spesso nei suoi libri, all’improvviso, due persone non hanno più niente da dirsi. Hanno chiacchierato un po’, si sono rimbalzati qualche riflessione, a volte piacevole altre volte guardinga, poi è finita, non c’è più niente da raccontare e restano lì un po’ impacciati. Sembrano rimpiangere di non essere in compagnia di un cane o di un cavallo o di un qualsiasi animale muto, governabile, saggiamente tacito davanti al mondo. E allora eccomi lì, a Torino, in quel silenzio, sprofondato nella poetica dell’autore che avevo appena tradotto. (Sono contento che, con Letizia Sacchini, Everett abbia trovato una nuova voce equilibrata, attenta, precisa. Seguire ancora uno scrittore tanto amato grazie a una traduttrice così sapiente è confortante.)
Che cosa c’è in questo nuovo libro? Ad esempio c’è un racconto dove un ragazzo deve superare il lutto per la morte della sorella, o forse non deve superare niente, forse vuole solo essere lasciato in pace. Dai genitori e da una psicologa e dal pensiero che si debba sempre fare qualcosa. È un racconto che ha una strana qualità onirica, non succede quasi niente, forse deve apparire un orso ma non appare, forse compaiono due alci ma è un attimo, forse guizza un pesce enorme. Mentre leggevo, pensavo che una delle qualità di Everett è questo continuo assestarsi in una terra di nessuno, a metà strada tra la vita e il sogno. Spesso nei suoi libri, un personaggio appoggia per un momento il capo da qualche parte e sprofonda in una narrazione diversa, plausibile e allo stesso tempo impossibile, come tutte le narrazioni. È lì che Everett trova un contrappeso, nella terra dei sogni, delle parole e delle immagini sempre evanescenti eppure così profondamente innestate nel nostro cuore, che poi in un attimo, con una chiusa fulminea, ci abbandonano, e il racconto – il sogno – è terminato.
Alcuni racconti sono compiuti, finiti, definiti. In altri sembra di vedere un unico episodio di una serie tv, un pilota, un unicum vacuo e abbandonato, ed è bello: hanno trovato delle vacche morte, un uomo vuole truffare un’assicurazione, c’è uno sceriffo stanco e scettico, una famiglia assassinata in un ranch, un uomo impazzito, che cosa accadrà?, che cosa ne sappiamo?, saranno giusto un paio di colonne in cronaca?, un rigo in letteratura? Quando tutte le domande sono state fatte e nessuna ha trovato risposta, Everett si ferma sul volto di un uomo e sulla neve che vortica. Punto. È quel momento di sospensione che, inceppando la storia, costruisce la letteratura: che cos’è il senso di una narrazione se non l’attimo in cui l’episodio televisivo si fermava sul classico cliffhanger e compariva il nome dei produttori? Ma soprattutto: perché poi continuare?
E poi ecco una valletta inquietante trovata durante una cavalcata che ricorda l’aldilà, un indiano che assomiglia a un attore famoso, un personaggio irrintracciabile da cui sentirsi intimiditi (anche se non è chiaro chi minaccia chi), ecco un sogno miracoloso, ecco un terremoto. Il deserto è sempre lì, più o meno immutabile. Gli animali sono sempre lì, più o meno ammaestrabili. Sono gli esseri umani a risultare imprevedibili. Neri, indiani, bianchi, meticci, donne, uomini, bambini, adolescenti, umani.
Ho letto i racconti di notte, in un palmo d’aria afosa, e il passo di Everett ha la forza di rasserenarmi, anche quando ti mostra una famiglia uccisa a fucilate. C’è un ordine stolido nella sua pagina, che ricorda la vocazione di alcuni protagonisti a sistemare le cose, sebbene la moglie li abbia lasciati, il mondo vada a scatafascio e da un momento all’altro stia per succedere qualcosa di terribile, fosse solo un gioco di parole. Dietro ogni persona, c’è una piccola minacciosa alterazione del mondo. E dietro ogni storia semplice, c’è un mistero. Dietro le parole, il caos: noi.
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