Archivi categoria: Interviste

Let’s call the whole thing translation

03c61fa6031b9df2b6257af3b1375856(Mariateresa Pazienza ha avuto la bontà di farmi qualche domanda per il sito Casa di Ringhiera. Qui tutta l’intervista.)

(…) Come ho detto, bisogna venire attratti da quella zona di confine tra le lingue: terra di nessuno, nebulosa impalpabile, passaggio glottologico, momento psichico, idioletto cosmico, gioco del telegrafo, mettila come ti pare, let’s call the whole thing translation. Poi, da un punto di vista pratico, bisogna studiare, avere orecchio, avere cura, sentire le parole, correggere bozze, rivedere traduzioni, chiedere una prova di traduzione, superarla, affrontare un testo, perseverare, tradurre molto (anche con mestiere, non solo con passione), imparare dagli errori (che sono sempre tanti), arrivare al punto in cui ti puoi definire un traduttore passabile, e comunque resti sempre un dilettante: ti offrono Nabokov e ti metti a piangere perché sei un miserabile (e se leggi come Nabokov ha tradotto l’Onegin vedi che perfino lui avrebbe dovuto piangere: immagine che mi pare emblematica per definire questo lavoro: annichilisce perfino l’autore di Lolita). Ad ogni modo non diventi mai un traduttore e basta: fai sempre un mucchio di altre cose. (…)

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Come leggono gli scrittori italiani – Marco’s Version

mac_SnoopyReading_1391181339(Dalle pagine del suo blog Matteo B. Bianchi sta portando avanti una specie di inchiesta sul modo in cui leggono gli scrittori italiani e ha rivolto qualche domanda anche a me.)

Tutti soffrono del “blocco dello scrittore” prima o poi, ma ti è mai capitato il “blocco del lettore”? Se accade come ti comporti? Ti “abbassi” a leggere qualcosa di più “leggero” o non leggi affatto?
Mi capita di continuo. Anche se in generale leggo sempre qualcosa. Un racconto, una poesia, una raccolta di qualcosa. È difficile che non apra un libro per più di qualche ora. Comunque a volte mollo il libro senza problemi, altre volte ne comincio un altro pensando di tornare più tardi al primo (che è poi a sua volta è stato l’altro di un altro, come in un’immensa orgia letteraria che è la mia libreria), altre ancora insisto. Quando facevo il lettore di professione per dare un parere editoriale (cosa che in realtà non smetti del tutto di fare e che è un modo coatto, strano, di leggere), mi capitava di avere davvero la nausea da storie, da stile, da tutto. Allora mi abbandonavo a qualche altro mezzo: un film, una cena con gli amici, un bicchiere, Pac Man, l’ottovolante. In generale quel tipo di lettura rischia di rovinarti, perché devi imparare a farti un’idea precisa in fretta, mentre i libri hanno movimenti inaspettati, sacche vuote, scarti. Insomma, è vero che il colpo d’occhio è decisivo, ma è importante anche immergersi. Allo stesso tempo questa idea della lettura lineare è strana. Un tempo si studiava o si pregava. Poi è arrivata la lettura come intrattenimento, come visione o comprensione del mondo, come posa intellettuale. Ora sembra un martirio, un obbligo, un inferno. Zuckerberg e i due libri al mese. Il cugino che al pranzo di Natale ti guarda affranto: “Dovrei leggere di più”. Ma fai quel cazzo che ti pare. Per me poi una bella pagina, se sai leggerla, è più importante di cento stronzate, che siano prodotti di basso livello o alti ma pretenziosi, quindi bassi. Di Holly Golightly in ospedale Capote dice che ha “gli occhi chiari come acqua piovana”, non basta questo per chiudere la giornata? No, bisogna leggere cento romanzi. Poi, come diceva qualcuno: “Si possono leggere dieci libri una volta o un libro dieci volte”.
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A caccia di Philip Roth con Giulio D’Antona

Philip Roth(Qualche settimana fa Giulio D’Antona mi ha chiesto di raggiungerlo in un pub per fare quattro chiacchiere su Philip Roth. Il risultato è una conversazione finita sul suo bel blog di affari americani chez l’Espresso.)

Parlare di Philip Roth con Marco Rossari è come osservare uno chef stellato mentre dispone una parata di quaglie alla cacciatora su un letto di patate dolci. Bisognerebbe stare in silenzio e reprimere gli istinti di partecipazione, ma l’acquolina rende tutto molto più complicato. Prima di andare a caccia del mio rinoceronte bianco per la prima volta, siamo rimasti poco più di un’ora seduti fuori da un bar di Milano, con i tram che ci sferragliavano accanto e una sfilza di birre sotto il naso, a dirci tutto quello che c’è da sapere su quelli della sua specie. Lui ordinava e io gli andavo dietro. Ho provato in varie occasioni a inserire la conversazione in un contesto più ampio, ma proprio come è impossibile servire le quaglie di uno chef stellato a contorno di un’insalata marinara preconfezionata, sarebbe sbagliato relegare quello che segue a gregario di un altro discorso.

(Continua a leggere su Americanish.)

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Come farsi querelare da Woody Allen e stare sereni. Un’intervista di Cristina Bolzani

“… Un amico mi ha scritto ‘Ti farai molti nemici’, ma in realtà sono tutti proiezioni di me. Deformate, esagerate, ma pur sempre ricalcati sulle mie manie. Capito, amici scrittori? Non siete voi. Ehi, scherzavo, dai…”

(Qui tutta l’intervista che Cristina Bolzani mi ha fatto per Bartleby Café.)

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“Un Woody Allen presbite nella Milano di Gadda.” Daniela Ranieri, Panorama.it

Fossi stato russo, avrei detto che eri il Mastroianni russo.

È la mia più grande ambizione, ma non so da quale dei due elementi cominciare. Aspetta, forse Carmelo Bene era il Majakovskij italiano, si potrebbe inventare una teoria della metempsicosi infranazionaletteraria, una specie di reincarnazione pseudocasuale tra artisti e affini. Uno spettro s’aggira per l’Europa e vuole la sua fetta di artisticità attraverso una definizione banalizzante.

(Continua a leggere l’intervista sul blog di Daniela Ranieri.)

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“Una frustrazione tragicomica.” Un’intervista a cura di Carlotta Susca

…Non c’è nemmeno una riga che riporti un fatto realmente accaduto, ammesso e non concesso che qualcosa di scritto possa riprodurre fedelmente un fatto. Diciamo che il libro prende dei momenti di esasperazione e li porta all’estremo. La realtà editoriale è molto più noiosa: si scrive, si traduce, ci si lamenta. Di solito da soli (e nel terzo caso non è un buon segno). Nel libro, invece di parlare male di questo o quello, ho preferito creare delle situazioni paradossali che raccontano un vuoto, un’idea, una frustrazione tragicomica…

(Continua a leggere su pool.)

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