Archivio mensile:marzo 2017

Bob Dylan. Il fantasma dell’elettricità

(Esce giovedì 16 marzo un mio libro su Bob Dylan per Add editore, 190 pagine per 13 eurini. Ne sono molto, molto felice. Lo presenteremo il 14 a Torino alla libreria Bodoni e il 23 a Milano alla Verso, poi a Bookpride e in tanti altri posti. Io l’ho chiamato passional essay, un’autobiografia per interposto cantante, un saggio viscerale che corre attraverso la sua e la mia vita, ma è soprattutto un libro che ho amato moltissimo scrivere. Qui c’è la scheda sul sito dell’editore, qui una versione della canzone da cui nasce il titolo, qui di seguito invece una specie di introduzione.) 

Questo libro non è un saggio. Intorno a Dylan sono stati scritti migliaia di volumi, uno si intitolava perfino Oh no! Non un altro libro su Bob Dylan. Sono state analizzate le influenze di Leadbelly, di Shelley, di qualche spirito egizio e di suo cugino. Si è discusso delle radici bibliche di molte canzoni, dei motivi blues e folk che le innervano, degli ammiccamenti al vecchio West.

Questo libro non è una biografia. Ne sono già state scritte tante; qualcuna più agiografica, qualcuna più scandalistica. Della vita di Dylan si sa quasi tutto, ormai. (Ma poi di quale vita? Le versioni intorno al suo trasferimento a New York, al celebre incidente di motocicletta, alla fine del primo matrimonio, alla conversione al cristianesimo sono innumerevoli, contraddittorie, nebulose. Ogni fatto è sconfinato nel mito, alimentato non solo dalle sue menzogne doverose e dalle sue sanissime ambiguità, ma anche dalla distanza e da quel rashomon collettivo che è la vita di una rockstar.)

Questo libro non è un’agiografia, ma non è nemmeno una demolizione. Con Dylan il caro vecchio «giù la statua» è facile. Provate a invitare qualcuno a bere un bicchiere e mettere su certi dischetti anni Ottanta. Difficile che a un tratto non alzi la testa per sbottare: «Ma che è ’sto strazio?». E poi, quanti scivoloni: suonare davanti a un reazionario come il Papa, vendere i diritti di «The Times They’re A-Changin’» per lo spot di una società informatica, partecipare alla pubblicità di un’auto. (Non ha solo concesso una canzone: c’è proprio lui al volante del Suv.) Dice tutto e il contrario di tutto. Ha scritto canzoni devote. Ha scritto canzoni brutte. (Basterebbe un distico da «I Threw It All Away»: «L’amore è tutto quel che c’è, fa girare il mondo / l’amore e solo l’amore, è innegabile». O ancora «Mozambique»: «Sdraiato accanto a lei davanti all’oceano / allunghi una mano e prendi la sua / mentre sussurri la tua emozione segreta / magica in una terra magica») (ho tradotto per agevolare la lettura, ma non sono quei testi che «ah, in inglese, cantato da lui, è un’altra cosa») (e il recente disco di canzoni natalizie: da accapponare la pelle).

Questo libro non è una cronologia, perché si muove su diversi piani temporali.

Questo libro non è un album di fotografie, anche se c’è qualche immagine.

Questo libro non è un instant. O se lo è, è un instant che dura da almeno quarant’anni.

Questo libro non è una raccolta dei testi migliori. Non c’è alcun tentativo di far passare Dylan per poeta, come in quei florilegi che accatastano i versi migliori nel risibile tentativo di inseguire una dignità cartacea della quale a lui stesso non è mai fregato nulla.

E poi: esiste un’espressione più vacua di “poeta”? Ma lasciamo la parola a lui.

DYLAN: Preferisco considerarmi un trapezista.

Grazie, Bob. Ora passiamo oltre.

Questo libro è la storia di tre canzoni.
 Questo libro è una storia di fantasmi.
 Questo libro è la mia storia, una parte della mia storia, in compagnia di Bob Dylan. È la mia lettera elettrica.

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Quel brutto vizio di narrare

26795307(Ho recensito per il magazine del Sole 24 Ore il nuovo romanzo di Michael Chabon.)

«“È tutto tuo. Te lo regalo. Quando non ci sono più, scrivilo. Spiega tutto. Mettici un significato. Usa un mucchio di quelle tue fantasiose metafore. Sistema tutto quanto nel giusto ordine cronologico, mica come il guazzabuglio che ti sto propinando io. Comincia con la notte della mia nascita. Il 2 marzo 1915. Quella sera c’era un’eclisse di luna, sai cos’è?”

“Quando l’ombra della Terra colpisce la luna.”

“Molto significativo. Sono sicuro che sia la metafora perfetta di qualcosa. Comincia da lì.”

“Un po’ scontato,” ho detto.»

Forse i posteri racconteranno del momento preciso nella cultura (letteraria) occidentale in cui l’invenzione non è più bastata. Accadde, diranno al nipotino davanti al fuoco, che ogni lettore provò un tic fastidioso: davanti a un’opera d’immaginazione domandava cosa ci fosse di vero e davanti a ogni opera ispirata a fatti realmente accaduti chiedeva cosa ci fosse di falso. Insomma, il romanzo senza il pettegolezzo non piaceva più, ma anche il memoir senza un intorbidimento delle acque aveva rotto i santissimi. Ecco che a un tratto, rinvenuta tra i sollazzi di certi oziosi intellettuali francesi, l’idea dell’autofiction aveva cominciato a dilagare. Poco importava che innumerevoli romanzieri avessero già ampiamente giocato con l’equivoco della scrittura e dell’io: non c’è niente come una nuova etichetta per rivendere un prodotto stantio. E così per lungo tempo, diranno al frugoletto, fioccarono racconti fittizi che giocavano con l’identità del narratore stesso, debitori di una fame di realtà individuata qualche anno prima in un saggio avventuroso scritto da David Shields. Era una moda?, chiederà il nipotino, un escamotage? I nuovi romanzi erano le persone? E in questo modo la verità poteva infiammare nuovamente la fantasia?

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