(Ho scritto un pezzo sulla mia idea di Milano per IL, il magazine del Sole24Ore. Qui accanto una vecchia foto di Renato Casari.)
C’è un momento in cui capisci di essere fregato. Alla mattina, apri le imposte per cambiare l’atmosfera fuori con l’aria pulita del sonno e lo vedi. È un’installazione d’arte contemporanea, un dipinto sospeso. Non tanto un Cy Twombly, più tipo quelli dell’amico di Barney Panofsky che invitava i compari a dare un colpo di straccio sulla tela, tanto l’arte è una bufala. Insomma: non è bianco, perché ha le sbavature di grigio. Non è plumbeo, perché non sono cariche d’acqua. Non è nero e non lo sarà mai, perché di notte ci arriva il riverbero equoreo delle luci. Non è nebbioso, perché l’interramento dei Navigli ha dissolto la bruma (e non perché a nessuno importava delle soavi imprecazioni lanciate dalle lavandaie, ma per ragioni di salubrità: ci finivano gli scarichi del centro, ora quel flusso prosaico di deiezioni si chiama poeticamente “collettore”). Allora che cos’è? È l’interno di una lampadina? È l’eco delle polveri sottili? È il bicchiere di latte filmato da Hitchcock nel Sospetto? O è il «grigio fumoso delicato come una perla» di cui parlava Giuliano Gramigna in una poesia? Di sicuro non è un cielo, ma a quel punto ti accorgi che sei fregato perché ti piace. Questa cupola non si perde in struggimenti: qui la nostalgia dell’azzurro è un sentimento che si manifesta in presenza e non in assenza dell’oggetto stesso della nostalgia. Quando c’è, c’è. Inoltre emanciparsi dalle bizze del meteo è il primo segno di maturità.
Benvenuti a Milano.
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