(In occasione dell’uscita del Paese dei coppoloni per Feltrinelli, ho scritto un ritrattone un po’ più articolato e analitico del solito intorno a Vinicio Capossela.)
A inizio secolo un pianoforte si aggirava per Milano.
Rimpallato da un bar all’altro, di Arci in Arci, vagava perché il proprietario non aveva posto per ospitarlo e quindi lo dava in comodato d’uso al locale di turno, dove ogni tanto sul tardi la voce del padrone faceva capolino con una confraternita del Chianti insieme a cui strimpellare fino a tarda notte, per la gioia dei vicini e di un pugno di aficionados disposti a fare le ore piccole dietro a un ego squassante come una fanfara e all’idea del concertino per pochi intimi. «Quello arriva», mi disse un barista che non lo aveva in particolare simpatia, «e si mette lì a bere». Non mi sembrava un’abitudine così grave, ma nemmeno la sua invidia lo era. «Quello» era Vinicio Capossela, vagabondo notturno appresso al suo strumento, nella migliore delle tradizioni scapigliate. Allora non mi dispiaceva questa sua immagine itinerante, fatta di comparsate a sorpresa, cui non doveva essere aliena la possibilità di qualche drink a scrocco o magari un rimorchio. Era nella fase migliore, dopo Canzoni a manovella, appena prima che cominciassero i dischi di maniera, e già allora la sua immagine sollevava parecchi dubbi.
Devi effettuare l'accesso per postare un commento.