Archivio mensile:Maggio 2014

La scrittura bighellona di Teju Cole – IL

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(Questo articolo è uscito su IL, supplemento mensile al Sole24Ore.)

Prendendo in prestito un aforisma di Archiloco, Isaiah Berlin scrisse che gli scrittori si dividono in due categorie: quelli riccio e quelli volpe. In sostanza, quelli che cullano una sola idea fissa da rimuginare in ogni libro e quelli curiosi che invece cambiano di continuo. La sintesi era che la volpe sa tante cose, ma il riccio ne sa una grande. In fondo non era un giudizio qualitativo e di sicuro non esaurisce la gamma offerta dalle lettere, però aiuta a mettere a fuoco un approccio alla scrittura e al mondo. La ripartizione torna in mente davanti al lavoro di uno scrittore come Teju Cole.

Di origine africana, Cole è nato negli Stati Uniti e cresciuto in Nigeria. Ha studiato psicologia e ha esordito nella narrativa con un libro intitolato Città aperta, pubblicato da Einaudi nella bella traduzione di Gioia Guerzoni, dove raccontava la vita riflessiva di Julius, emigrato africano di stanza negli Stati Uniti, padre nigeriano e madre tedesca, che studia psichiatria e bighellona per la New York post-11 settembre, ponderando identità, guerra al terrorismo, infanzia e Storia. In debito con le divagazioni di Sebald, il romanzo era un tentativo di flânerie metropolitana e seguiva (o meglio: si perdeva dietro) un senso di sradicamento, sbandando in tante piccole meditazioni digressive. Come il funambolo che nel 1974 attraversò le Torri, Città aperta oscillava tra romanzo e saggio, tra elucubrazione filosofica e istantanea poetica.

(Continua a leggere sul sito del Sole24Ore.)

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Charles Bukowski, Un gran bel picnic

bukowski(Stasera alla librerira Gogol&Company di via Savona, Milano, intorno alle sei/sei e mezza leggerò qualche poesia di Charles Bukowski. Tra queste, quella ricopiata qui di seguito, tratta da Love Is a Dog from Hell 1974-1977, raccolta riproposta in Italia da Guanda con il titolo L’amore è un cane che viene dall’inferno, traduzione di Katia Bagnoli. La traduzione di questa poesia è mia.)

 

mi torna in mente

che mi sono accasato con Jane per sette annni

era un’ubriacona

l’amavo

 

i miei genitori la odiavano

io odiavo i miei genitori

eravamo un bel

gruppo

 

un giorno siamo andati a fare un picnic

insieme

su in collina

e abbiamo giocato a carte e bevuto birra e

mangiato insalata di patate

 

l’hanno trattata come se fosse un essere umano

una buona volta

 

tutti ridevano

io no.

 

più tardi a casa mia

strafatti di whisky

le ho detto:

non mi piacciono

ma è bello che ti abbiano trattata

bene.

 

idiota, ha risposto lei,

non hai capito?

 

capito cosa?

 

continuavano a fissarmi la panza alcolica,

pensano che sono incinta.

 

ah, ho detto, allora brindiamo al nostro

bel bambino.

 

al nostro bel bambino,

ha detto lei.

 

e ce li siamo scolati.

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Pnin e lo scoiattolo

pninLa vide partire, e tornò indietro a piedi attraverso il parco. Fermarla, trattenerla – così com’era – con la sua crudeltà, la sua volgarità, gli abbaglianti occhi azzurri, i poveri versi, i piedi grassi, e con la sua anima impura, arida, sordida, infantile. A un tratto pensò: se ci si ritrova tutti in paradiso (non ci credo, ma supponiamo di sì), come potrò impedire che mi strisci addosso, che mi strisci sopra quella cosa avvizzita, indifesa, storpia che sarà la sua anima? Ma qui siamo sulla terra, e io, strano a dirsi, sono vivo, e c’è qualcosa in me e nella vita…

Sembrava che fosse arrivato, in modo del tutto inatteso (perché la disperazione umana di rado conduce alle grandi verità), sull’orlo di una soluzione universale, ma venne interrotto da una rischiesta urgente. Uno scoiattolo, sotto un albero, aveva visto Pnin sul sentiero. Con un movimento sinuoso come un tralcio di vite, l’intelligente bestiola balzò sul bordo di una fontanella e, mentre Pnin si avvicinava, protese il musetto ovale verso di lui, con un suono sbruffante piuttosto offensivo, gonfiando le gote. Pnin capì e dopo aver armeggiato un po’ trovò il bottone che doveva premere per conseguire l’esito desiderato. Squadrandolo con disprezzo, l’assetato roditore cominciò subito a gustare la robusta e scintillante colonna d’acqua, e continuò a bere per un bel po’. “Forse ha la febbre” pensò Pnin, piangendo silenziosamente e senza freno, tenendo cortesemente schiacciato il marchingegno per tutto il tempo e insieme cercando di non incrociare quello spiacevole sguardo fisso su di lui. Placata la sete, lo scoiattolo se ne andò senza il benché minimo segno di gratitudine.

(Vladimir Nabokov, Pnin, traduzione di Elena De Angeli, Adelphi 1998, p. 58.)

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