Archivio mensile:febbraio 2014

Memorie di un fallito – IL

BeRkbZeIYAA0zaC(È uscita per IL, il magazine del Sole24Ore, una mia recensione in anteprima del memoir di Gary Shteyngart, Little Failure, in uscita per Guanda a settembre. Qui il booktrailer di cui si parla nella recensione e qui la recensione di Michiko Kakutani per il New York Times.)

Un celebre incipit, nella traduzione di Paolo Crepet, sermoneggia: «Tutte le famiglie funzionali si assomigliano. Ma ogni famiglia disfunzionale è disfunzionale a modo suo». L’esatto contrario dei memoir sfornati dal mercato editoriale, che sono tutti disfunzionali e si somigliano alla nausea. Ingredienti: 55% trauma e 5% trama, 15% sfiducia radicale nella famiglia e 15% fiducia ossessiva nella famiglia, 5% perdizione e 5% rinascita, più un pizzico di sesso malato. Inoltre un memoir, a differenza dei più compiuti romanzi incompiuti, deve avere un lieto fine, altrimenti non saresti arrivato a scriverlo e perderesti quella fetta di pubblico disposta a scucire 20 euro per credere di riuscire a disintossicarsi, grazie a una parabola che si vorrebbe sincera, dalle slot disseminate nei bar, dalle chat di Facebook oppure, più semplicemente, dal crack. A ogni modo la ferita è centrale. Deve esserci un prima e un dopo grazie al quale dare un senso a questa cosa anarcoide che chiamiamo esistenza. Definito lo spartiacque, sarà più facile non solo tirare a campare ma anche tirare giù una scaletta per scrivere.

E invece nel quarto libro di Gary Shteyngart…

(Continua a leggere sul sito del Sole24Ore)

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Alla ricerca dello sballo supremo

Unknown“15 gennaio 1953. Hotel Colón, Panama. Caro Allen, sono solo di passaggio per farmi togliere le emorroidi. Non mi sembrava il caso di tornare fra gli indios con le emorroidi.” Così, a dir poco in medias res, William S. Burroughs apriva il leggendario epistolario dello yage con Allen Ginsberg, oggi ripubblicato da Adelphi (pp. 215, € 12,00, a cura e con un’introduzione di Oliver Harris, nella splendida traduzione di Andrew Tanzi).

Ma che ci faceva da quelle parti, il mefitico tossico metropolitano?

Qualche anno prima aveva chiuso il romanzo La scimmia sulla schiena ripromettendosi di partire alla ricerca di un Santo Graal psichedelico, un paradiso perduto per chi, oltre che straniero in terra propria, si sentiva esule anche nel proprio corpo. “Lo yage potrebbe essere lo sballo supremo.” The Final Fix, recita l’ultima riga. La visione? L’estasi? La morte? Un po’ tutto questo. “La Città Composita dove tutte le potenzialità umane si distendono in un vasto mercato silenzioso.” Ipse dixit.

A Burroughs gli Stati Uniti andavano stretti e poi non riusciva a pubblicare niente per i contenuti troppo espliciti. E allora via, a bordo di tre caravelle tossiche – i postumi dello yage stesso – la purga (nausea), la chuma (vertigini) e la pinta (visioni), mezzo Cristoforo Colombo e mezzo Che Guevara, un po’ Castaneda e un po’ Indiana Jones, Burroughs si imbarca alla ricerca di questa fantomatica liana dagli effetti magici, in grado di spalancare mondi interiori e universi cosmici, tenendo aggiornato il suo compagno di sballo sul proprio girovagare per l’America Latina.

In realtà, come spiega con dovizia di riscontri Oliver Harris, questo libro tutto è fuorché un epistolario. Le lettere vennero spedite e poi perdute o riscritte dal 1953 al 1963. Si aggiunse un epilogo, dove in ritardo di sette anni Ginsberg finalmente rispondeva raccontando la sua terrificante esperienza con la droga e Burroughs lo liquidava da par suo (“Caro Allen, non c’è niente da temere”: grazie tante), poi un ulteriore poscritto con un’altra breve cartolina di Ginsberg e un’enunciazione di poetica da parte di Burroughs. Oggi il libro si è arricchito di varie appendici, di un gran numero di note e di una cura meticolosa, a infittire un palinsesto già ricco di varianti oscure e di ambiguità narrative (in qualche caso Burroughs, in un crescente vorticoso di schizofrenia, firma le lettere false con il nome vero e le lettere vere con il nome falso di Bill Lee, l’alter ego narrativo).

Che cos’è dunque questo volumetto incandescente e inclassificabile? Le Lettere dello yage sono un diario di viaggio, un trattato di etnopsicofarmacologia, un romanzo d’avventure, un saggio di antropologia, un libro picaresco, una dichiarazione di poetica, un poema in prosa, un ricettario lisergico, una perla di humour nero e tante, tantissime altre cose. Marchettari, catapecchie, dittatori, giungle, pere, vecchi amori omosessuali, sbornie: tutto quanto finisce nel calderone ribollente di una prosa esilarante e cinica. Tanto per dare un’idea: “Sempre la solita Panama. Troie e papponi e puttanieri. ‘Vuoi bella ragazza?’ ‘Signora nuda balla?’ ‘Mi guardi fottere mia sorella?’ Ci credo che mangiare costa tanto. Non ce la fanno a tenerli in campagna. Vogliono venire tutti nella grande città a fare i papponi.” O ancora: “Sulla barca ho parlato con un uomo che conosce la giungla ecuadoregna come la sua fava. Sembra che i commercianti della giungla depredino periodicamente gli auca (…) e si portino via le donne, che tengono in gabbia a scopo sessuale. È interessante. Magari riesco a catturare un ragazzino auca. Ho ricevuto istruzioni precise su come assalire gli auca. (…) Copri entrambe le uscite della casa auca e spari a tutto quello che non ti va di scoparti.”

Forse la droga non gli regalò una volta per tutte il diritto alla visionarietà, magari gli sciamani erano solo dei vecchietti cialtroni e lo yage una pianta allucinogena che oggi alimenta una fiorente industria turistica del trip, di sicuro a leccarsi i polpastrelli mentre si sfoglia questo piccolo capolavoro beffardo si rischiano le visioni: pare che qualche vecchio beat le abbia cosparse con un rimasuglio di ayahuasca. Buon viaggio, è il caso di dirlo.

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