Archivio mensile:gennaio 2013

Hannibal Lector, intellettuale

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(È online l’articolo uscito su Rivista Studio di novembre-dicembre.)

Qualche tempo fa, sull’isolotto di Patmos, San Giovanni ebbe la visione di un angelo che gli porgeva un libro con un perentorio: “Prendilo e mangialo”. Il mistico non lo sapeva ma era il primo di una lunga serie di creature bulimiche, sottospecie di Hannibal Lector, che triturano celluloide al soldo degli editori per sfornare un parere scritto, detto appunto “lettura”. Come per un gigantesco contrappasso volto a riscattare l’ipotetica pigrizia intellettuale del Paese o nel tentativo impossibile di controbilanciare i dati Istat sui libri, questi lemuri vengono bombardati di manoscritti editi e inediti in lingua originale, con un rito abbietto che si ripete uguale dall’iniziazione in poi: ti piomba uno scartafaccio in casa e, nel giro di un amen, devi spedire una scheda nella quale è auspicabile che tu sia riuscito a: 1) riassumere la trama; 2) collocare il libro nel catalogo dell’editore; 3) collocarlo nel panorama editoriale nostrano; 4) collocarlo nella storia della letteratura; 5) leggerlo (facoltativo).

Continua a leggere sul sito di Rivista Studio.

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La grande truffa del jazz

Chet Baker Diane Vavra(Ho pubblicato questo articolo non so più quanto tempo fa. In seguito, per Baldini&Castoldi è uscita l’edizione italiana con il titolo Chet Baker. La lunga notte di un mito e, guarda caso, l’ho tradotta io.)

Se Chet Baker fosse stato Malcom McLaren ora avremmo un film intitolato La grande truffa del jazz. Ovvero, un equivoco che dà vita e sopravvive a una leggenda. E che l’unica corposa biografia (James Gavin, Deep in a Dream. The Long Night of Chet Baker, Chicago Review Press) non può e non vuole risolvere.

Com’è riuscito quel ragazzino nato nel 1929 nel cuore cafone dell’Oklahoma a diventare un’icona del jazz? Se n’erano già accorti i neri della East Coast, quando lui andò a suonare al Birdland di New York. Quello nei sondaggi li stracciava. Da Dizzy Gillespie fino a Miles Davis. E non sapeva nemmeno leggere le note. Ma possedeva un istinto infallibile e, con largo anticipo su James Dean e Marlon Brando, aveva capito come sedurre l’America degli anni ’50, tutta maglioni di percalle e mocassini.

“Egoista, infedele, inaffidabile e vulnerabile: ecco la combinazione più irresistibile al mondo” come lo ha definito Geoff Dyer in Natura morta con custodia di sax. E quando il giocattolo si ruppe e il broncio da modello ferito non era più sufficiente a ottenere ingaggi e vendere dischi, ecco arrivare la droga. Ma non bastava. Tutti si facevano in quel mondo, ma Miles Davis e Coltrane stavano per cambiare la faccia del jazz. Chet era ancora fermo a Gerry Mulligan: una fase cruciale, sì, ma senza evoluzione. Come per Charles Bukowski, ci voleva un mercato che volesse il lato oscuro del Sogno Americano: l’Europa, ovvio.

Baker decise, impossibile capire quanto consapevolmente, di trasformare la sua vita in una serie ininterrotta di concerti e pere in giro per il Vecchio Mondo. Parigi valeva Cleveland, per quanto lo riguardava, ma il pubblico lo idolatrava. E a volte la musica c’era, tante altre no. Eppure in qualche caso la magia si accendeva ancora. Rallentava a tal punto il tempo dei brani da trasformarli in un’esperienza interiore che, chissà come, questo relitto campagnolo con le vene come fil di ferro e l’indipendenza di un bambino riusciva a comunicare a tutto il pubblico.

E tutti gli andarono dietro. Oddio, tutti tranne quelli che aveva denunciato alla polizia per garantirsi una scarcerazione veloce, tanto per fare un esempio. E i critici, per farne un altro. Ma tanti altri sceglievano Chet. O meglio, la loro idea di Chet. Le donne, in primis. Rinunciavano a tutto per lui, prendevano le botte per lui, si drogavano per lui. Una sua compagna lo aiutò a trascinare in strada il cadavere di uno spacciatore morto di overdose. Chet non si può abbandonare, dicevano. Nemmeno quando ti ruba qualcosa e lo rivende per comprare una dose che si inietterà nello scroto proprio nella cucina di casa tua.

Ormai la musica era passata in secondo piano. Coincideva già con la persona. O il personaggio. E l’ultimo a innamorarsene fu Bruce Weber, che gli ha dedicato un documentario in bianco e nero votato a una santificazione al rovescio, una beatificazione dei dannati. Let’s Get Lost, andiamocene (ma anche: perdiamoci), è il titolo rubato a un vecchio standard jazz. Chet lo prese in parola, smarrendosi senza trovare più l’uscita, come un Jim Morrison condannato all’immortalità. Una sconfitta che non trovava un epilogo. Si trasformò in un uomo ridotto a due sole pulsioni che lo stremavano e lo tenevano in piedi. Suonare e farsi, farsi e suonare. Finalmente, a 59 anni, cercò la caduta fatale dalla finestra di un albergo di Amsterdam. È caduto o si è ucciso? Un altro equivoco irrisolto. Chet non si smentì nemmeno in quel frangente.

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Dio e le carote


Copertina Unico scrittore(Un annetto fa ho pubblicato il libro qui accanto. Qui c’è la pagina ufficiale sul sito delle edizioni e/o e qui la rassegna stampa. Festeggio l’anniversario, che è un po’ anche un funerale, pubblicandone l’inizio, un’ipotetica risposta al più imperioso dei “Perché scrivi?”.)

Davanti a Dio, nel giorno del giudizio, avevo mentito.

Chissà perché, nel momento supremo, mi erano tornate in mente le carote. Mi spiego. Quand’ero piccolo mangiavo a scuola. In mensa c’era una tizia pingue e maleodorante, soprannominata la Lurida. Più che prepararci da mangiare, ci preparava e basta. Al militare, al futuro, al male. Per la Lurida noi stavamo al cibo come la giumenta sta alla sferza. Riuscivamo a ingollare tutto quello che cucinava, ma al momento delle carote lo stomaco capitolava e si rifiutava di buttare giù quelle radici insapori.

Ognuno cercava di scamparla a modo suo. C’era chi le ficcava in bocca, accompagnandole da una caraffa d’acqua (metodo Cisterna), chi le masticava per ore fino ad anestetizzare la mascella (metodo Spasmo), chi corrompeva il vicino con le figurine e gliele rifilava (metodo Premier).

Angelino aveva trovato un modo sicuro: si guardava intorno con aria circospetta, afferrava l’ignobile pastone e se lo infilava nella tasca del grembiule. Andando a casa, si liberava del corpo del reato in una discarica, dove veniva ignorato anche dalle pantegane più disperate. Era l’uovo di Colombo, eppure per chissà quale motivo nessuno si sentiva di emularlo.

Una sola volta gli era andata male. Un giorno, avvertito da qualche delatore, il preside si era presentato all’uscita della mensa. Si chiamava – lo giuro – Livorio Smricchio e aveva un carattere spigoloso quanto il nome. Irreggimentati in fila per due, eravamo transitati davanti all’arcigno Livorio. Io, di fianco ad Angelino. Al nostro passaggio Livorio aveva abbrancato Angelino e gli aveva intimato di vuotare le tasche. Al povero Angelino, non era restato che porgere le mani a coppa. Lì, come una grattugia di ostie rossastre stava l’orribile radice fosforescente.

“Perché l’hai fatto?” aveva tuonato Livorio.

Incassata la risposta, che io solo ero riuscito a sentire, l’enorme mano irsuta di Smricchio era calata sulla faccia glabra di Angelino, spalmandolo per terra.

Ma come mai, nel momento supremo, quando Dio mi aveva chiesto perché avevo scritto romanzi, avevo pensato alle carote? Non potevo guadagnarmi il paradiso dicendo la pura e semplice verità? In fondo, aveva sempre a che fare con Angelino.

Sì, lo so, forse avrei dovuto dire a Dio che tanti anni dopo avevo incontrato di nuovo Angelino in un parco. Mi era arrivata la voce che non gli fosse andata bene. Il ragazzino che nascondeva le carote nel grembiule era diventato uno dei tanti svitati che vagano per i luoghi pubblici. Insomma, Angelino era finito sulla strada. Era sporco, lacero. L’occhio vitreo, il passo strascicato, le unghie nere. Uno di quei mattocchi che hanno sempre un ritornello, una frase ossessiva, un disco rotto da balbettare ai passanti. Ogni matto ha un grido di battaglia, un nonsense necessario: la cifra distintiva di un’individualità spezzata ma sempre unica. Dieci parole che condensano tutte quelle di una vita ormai perduta. L’haiku dei dementi, l’aforisma stolto che per gli altri non ha significato.

Lui girava per il parco chiedendo a tutti se pagavano l’ambo sulla ruota di Lugano: era quella la sua fissa. Di solito la gente rideva, qualcuno gli dava uno spiccio, altri si allontanavano.

Non mi riconoscerà, avevo pensato. Mi chiederà solo dell’ambo sulla ruota di Lugano. Invece, si era piantato davanti a me e aveva detto: “Amico mio, sono disperato”. Ed era corso via. Ecco, nel momento supremo, avrei voluto dire a Dio che da quel momento avevo scritto solo per comunicare agli altri un’eco di quella voce rotta, un riverbero della sua pena:

“Sono disperato.”

Siamo tutti disperati, Angelino, e tutti quanti ce ne vergogniamo. Invece davanti a Dio in persona, che aveva tuonato “Perché hai scritto?”, mi era tornata in mente la risposta dell’Angelino bambino davanti a Livorio, con le carote in mano, ancora innocente, ancora ribelle, ancora combattivo. Avevo dato la stessa risposta gratuita che solo io avevo sentito.

“Perché l’hai fatto? Perché scrivi?”

“Per dispetto.”

E avevo aspettato lo schiaffone di Dio.

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L’ippopoeta

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(Da un libro inedito di poesie per ragazzi. Con il pensiero al grande Toti Scialoja.)

L’ippopoeta nel talamo

scrive t’amo con il calamo.

E le ippopotame lo amano.

Lost in Fiction

tumblr_lghfldpCtf1qamdvqo1_500(Qualche tempo fa ho letto questo pezzo di Vincenzo Latronico che mi ha ricordato questo pezzo di Andrea Tarabbia che mi ha ricordato di un mio pezzo di qualche tempo fa che ripubblico qua di seguito, intorno a fiction e identità.)

Dunque, ricapitoliamo. La trama, prima di tutto. Jim, amico di Ralph, racconta le loro vicende nella California degli anni ’70. Sono due scrittori, e quindi bevono molto, fumano di più, tradiscono la moglie, si tradiscono a vicenda, per poi riappacificarsi e tradirsi di nuovo. Insegnano (più o meno) scrittura creativa e tra una sbronza e l’altra, dopo la solita scopata occasionale nel solito motel, trovano il tempo anche per scrivere, o per vivere quello che scriveranno in futuro. Che poi è la stessa cosa. O no?

Riproviamo. Ralph non è solo Ralph Crawford ma è anche e soprattutto il grande Raymond Carver, amico fraterno di Chuck Kinder, il quale è naturalmente Jim, ovvero l’autore di Lune di miele. Precauzioni per l’uso (Fazi Editore). E non è finita qui. Kinder è stato anche insegnante di scrittura creativa del giovane Michael Chabon, il quale ne ha fatto il protagonista, con lo pseudonimo di Grady Tripp, del suo Wonder Boys (Rizzoli). Nel film di Curtis Hanson tratto dal libro a interpretarlo era un irriconoscibile Michael Douglas. Offuscato dalle droghe e agghindato con una cenciosa vestaglietta rosa, faceva la parte di un professore universitario in crisi, alle prese da quasi vent’anni con un libro mastodontico. Quel libro, quel dattiloscritto sparpagliato sul pavimento sporco della sua stanza, è Lune di miele, che nel 2001, dopo più di vent’anni di faticosa gestazione, ha finalmente visto la luce. Leggendolo, si ha la bizzarra sensazione di avere assistito alla sua stesura grazie alla cortese partecipazione di Hollywood. Oppure di osservare un quadro di Gauguin che raffiguri Van Gogh mentre dipinge Gauguin.

Eppure irritarsi per tutti questi echi sarebbe sbagliato. Perché, pur approfittandone dal punto di vista promozionale, Lune di miele si addentra felicemente nel territorio misterioso della scrittura. Tutti i personaggi di Kinder sono ossessionati dalla doppia vita che rischiano di avere. Non solo chi scrive, che vivendo per scrivere si guarda bene dallo scindere le due cose. Ma anche chi non lo fa, come la moglie di Ralph-Raymond Carver che arringa il giudice del processo per una piccola truffa ad opera del marito, avvertendolo che anche lui ben presto non sarà altro che il personaggio di un racconto (e che alla fine lo è diventato, ma non di un libro di Carver). Realtà e fantasia, fiction e nonfiction si inseguono mordendosi la coda, creando un ambiguo pasticcio alimentato casualmente dal successo del libro di Chabon e dal film. E soprattutto spalancando un abisso vertiginoso sui paradossi dell’autobiografismo.

Perché è vero che Lune di miele può essere letto semplicemente come una scatenata, commovente elegia sull’immaturità cronica di due amici scrittori, senza nulla togliere al valore del libro. Ma è anche vero che è lo stesso Kinder a invitarci nel labirinto delle identità e immortalità future: “Improvvisamente Jim si chiese chi fosse il vero testimone degli eventi che si stavano verificando nelle loro vite, lui oppure Ralph, e quale dei due ne avrebbe portato il significato nella memoria. Per la primissima volta dall’inizio della loro amicizia Jim ebbe un’improvvisa paura di essersi perso, di essere rimasto sommerso, per così dire, nella memoria o nell’immaginazione di Ralph, oppure, cosa ben peggiore, nella sua fama futura”. La morale della favola? Diventate pure amici di uno scrittore. Ma solo se scrivete anche voi.

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