Archivio mensile:dicembre 2012

La città dell’alfabeto

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(Ripropongo un mio sillabario spericolato su un viaggio invernale a New York, che un paio d’anni fa ho pubblicato sul Primo Amore.)

A come ABC. Dormo in Alphabet City, tra Avenue A, B e C. Terminati i numeri, in questo angolo di New York sono partiti dalle lettere. È qui che vengono a vivere tutti gli scrittori della città, per ordinanza comunale. Ispirazione urbana, calamoterapia del sonno. L’alfabeto ne stravolge la vita notturna, fruga nei loro sogni: compongono romanzi sonnambuli, camminando per il quartiere. La tastiera è la strada, lo schermo il riflesso sul vetro di un caffè, la stampa il muro pastrocchiato di un palazzo fatiscente: perfino i cagnolini a passeggio sfornano qualche interiezione nelle pagine più deboli del loro nuovo capolavoro. Mi sveglio di colpo, ho appena scritto questa frase: chiamalo sonno.

B come band. In qualsiasi isolato del Lower East Village o di Williamsburg trovi localini dove suonano band da pomeriggio a sera – alle sei, alle sette, alle otto e alle nove – quasi tutti gratis, a parte la birra. Alla fine casco sul muy divertido Marc Ribot: suona intorcigliato alla chitarra come un vitigno al palo, la testa china che lascia intravedere solo la chierica e riproduce in minore il gesto alla Miles Davis delle spalle al pubblico (poi imitato da innumerevoli direttori d’orchestra). Si aggroviglia intorno a un pezzo di John Coltrane. Se obbligo del musicista classico è di non lasciare intravedere niente della preparazione e dell’esercizio, il segreto del jazzista è l’opposto: aprire la parete dell’officina, mostrare la fatica, improvvisare. Di qui il sudore e l’eroina. A fine concerto, ovviamente, lo incrocio al bar che ordina un succo di frutta.

(Continua sul Primo Amore.)

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Della poesia e del dolore

Ma oggi, penso, chi avrebbe più il coraggio di scrivere una lettera così?

Treviso, 12 febbraio [1963]

Cara Elsa,

ti penso sempre, sotto il peso della tua tragica vitalità intellettuale e della poesia, come nei nostri ultimi incontri. Devo sempre ringraziarti di aver potuto vedere nei tuoi occhi, la compiutezza assoluta della poesia e del dolore. E anche di quello mio, dolore; il nulla, massimo nulla possibile, in cui siamo costretti a vivere, pensandolo e contemplandolo.

Sono a Treviso, e un po’ in campagna, a lavorare. Dammi tue notizie, perché non so più nulla di te, all’infuori di una cartolina da Cordova. Sento però che sei sempre grandemente essenziale, come le ultime volte che ci siamo visti. Ed è perché tu lo sei che il nulla appare, nella sua grande ombra dilatante, più oscuro che mai: perché tu voli, di un volo lento e metafisico, senza strida o richiami, e la tua chiarezza e la tua ala mi pare di sentirle sempre che mi fanno compagnia.

Un abbraccio, tuo –

Goffredo Parise

(Da L’amata. Lettere di e a Elsa Morante, A cura di Daniele Morante, Einaudi 2012)

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“Putei spiritei.” La poesia tra filastrocca e traduzione.

screenhunter_07_may_12_1657“Uò cucò / putei spiritei / in punta de pinini / diiti scondarei.” Potrà sembrare una filastrocca veneta, invece è uno dei più sofisticati poeti del ventesimo secolo, tradotto in vicentino da Luigi Meneghello. Dopo aver speziato l’italiano dei suoi romanzi per lungo tempo con aromi dialettali e avere inseguito per anni il fantasma della traduzione perfetta, grazie alla costante frequentazione con la poesia inglese (Meneghello insegnava a Reading), qualche anno fa l’autore dei Piccoli maestri decise di togliersi uno sfizio e, tra il serio e il faceto, tradurre in quella che considerava la madrelingua alcuni classici della poesia inglese e americana, riunendoli in volume.

Non di vere e proprie traduzioni si tratta, bensì di Trapianti (uscito per Rizzoli nel 2002), ovvero di ripensamenti, tentativi, approssimazioni. E soprattutto tradimenti. Perché grazie alla scusa del divertissement, Meneghello si prendeva libertà che rendevano, molto più di alcune vecchie e legnose traduzioni, il ritmo tronco e le potenzialità degli originali. Lo diceva già Dario Fo ai suoi allievi: il modo migliore per sciogliere un attore che s’incaglia su una battuta è fargliela pronunciare in dialetto. Tradire il testo, per poi recuperarlo più fresco di prima. Ed ecco come l’intransigenza irlandese ci arrivi grazie al vernacolo prosaico. “Out of Ireland have we come. / Great hatred, little room, / Maimed us at the start. / I carry from my mother’s womb / A fanatic heart.” Pronti, via: “Sen vegnisti de l’Irlanda, / poca tera rabia granda, / semo sta ciavà in partensa. / Cuel ca me porto drio / da ’l sen do’ ca son nato / zé un core fanatico.”

Era Yeats, con il quale il giochetto viene bene. Ancora meglio con e.e. cummings, citato all’inizio con i suoi “putei spiritei” (“little ghostthings”). Qualche difficoltà affiora con la poesia di Gerald Manley Hopkins e con Shakespeare, che perde in tragicità ma guadagna in ironia. Certo vedere tradotto il celebre “Frailty, thy name is woman!” con un “Chi dise dona dise frìtola” dà una bella rinfrescata a certi versi fossilizzati del Bardo (e senza dover per forza ricorrere a trovate sceniche come la masturbazione di Amleto o un garage di Detroit al posto della corte danese).

Analogo discorso è possibile fare per un libretto di Limericks pubblicato nel 2002 da Einaudi, dove Ottavio Fatica, grazie a equilibrismi linguistici che gli hanno meritato il premio Mondello per la traduzione, restituisce intatti i nonsense di Edward Lear, tenendo ben presente la lezione di Toti Scialoja. Un solo esempio, strepitoso: “There was an Old Man on whose nose, / Most birds of the air could repose; / But they all flew away / At the closing of day, / Which relieved that Old Man and his nose.” Ancora più ricco: “C’era un tale, con tanto di naso, / Per gli uccelli era un vero Parnaso; / Ma all’occaso il rincaso / Scioglieva l’intaso, / Con sollievo del tale col naso”.

Forse per tornare a leggere poesia, strapparla al luogo comune che la vuole ostica o all’opposto lirica fino alla stucchevolezza, sarebbe opportuno ripartire da qui, dal gioco ecolalico delle rime e dei rimandi. Anche ricorrendo al dialetto, forse impopolare quanto endecasillabi e settenari. Ma chi l’ha detto che una filastrocca non può costituire uno degli esempi più ricercati di poesia del ventesimo secolo?

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