“A un tratto, in mezzo alla tristezza, al buio e all’oppressione, il suo cervello sembrava accendersi di colpo, tendendo in un estremo impulso tutte le proprie energie vitali. In quell’attimo, che aveva la durata di un lampo, la sensazione della vita e il senso dell’autocoscienza sembravano decuplicare di forza. Il cuore e lo spirito si illuminavano di una luce straordinaria. Tutti i dubbi, tutte le ansie e le agitazioni sembravano quietarsi di colpo, si risolvevano in una calma suprema, piena di armonica e serena letizia, di speranza, di ragionevolezza e di penetrazione suprema.”
Oggi non sarà facile presentare queste parole a una persona affetta da epilessia e convincerla del lato estatico di un male che nel corso del tempo ha beneficiato di molte definizioni – variabili anche a seconda del tipo di crisi, però quasi a volerne sempre ribadire l’inafferrabilità: “assenza”, “grande e piccolo male”, “mal caduco”, “sindrome comiziale”, “male sacro” – ma che deve il suo nome ufficiale al termine greco per “attacco”, capace di suscitare più angoscia che pace, più insicurezza che incanto.
Eppure furono queste le parole che Fëdor Dostoevskij mise in bocca a uno dei suoi personaggi più celebri, il mite principe Myškin de L’idiota, per raccontare con tutta probabilità anche il proprio rapporto con un male che lo accompagnò per tutta una vita di tribolazioni e sulla cui natura sussistono ancora più ombre che luci. Di sicuro l’immagine evocata non è la norma. “Solo alcune persone affette da quella del lobo temporale, uno dei molti tipi di epilessia, provano sensazioni assimilabili a quella descritta,” racconta la professoressa Maria Paola Canevini, vicedirettore del centro epilessia dell’ospedale San Paolo di Milano e associato di neurologia all’Università di Milano. “E la cosa non è generalizzabile. Nella mia esperienza non è raro che la prima crisi convulsiva, magari preceduta da anni da episodi ‘minori’, si verifichi in occasione di un trauma importante come un lutto per un familiare.”
Infatti la prima ipotesi – avanzata dalla sorella e oggi confutata, nonostante resti ancora la più suggestiva – è che Dostoevskij ebbe il primo attacco di convulsioni intorno ai diciott’anni, appena saputo della morte del padre, un uomo dispotico e violento che, sempre secondo leggenda, venne assassinato dai propri servitori, esasperati dai soprusi. Di sicuro, non molti anni dopo la morte traumatica di questa figura amata e temuta – successiva alla perdita della madre per tisi – il giovane Dostoevskij venne arrestato come sovversivo e condannato a morte, per venire graziato di proposito solo pochi minuti prima dell’esecuzione e deportato in Siberia. Qui gli stenti e la paura contribuirono a esasperarne lo stato di salute e a rendergli evidente il malessere, di cui forse in precedenza aveva sottovalutato la gravità.
Si presume che in seguito alle prime nozze con Marija Dimitrevna – sempre nel tentativo, quasi agiografico, di far combaciare l’affioramento del male con gli snodi più rilevanti di una vita – Dostoevskij venne colpito da un fortissimo attacco che lo lasciò immobilizzato a letto per qualche giorno. In realtà pare fosse più dovuto allo champagne. “In assenza di terapia farmacologica le crisi si ripetono spontaneamente,” spiega la dottoressa Canevini. “Ma a volte si riscontrano dei fattori favorenti. E l’alcol in questo caso può aver giocato un ruolo nel peggiorare la frequenza delle crisi”.
In ogni caso nemmeno la lettera che l’autore del già acclamato Povera gente scrisse allo zar, per convincerlo a lasciarlo tornare a Pietroburgo da Tver’, dove si trovava ancora relegato sulla base della condanna precedente, fuga i dubbi. “A ogni attacco perdo la memoria, la capacità immaginativa, le forze fisiche e spirituali,” scriveva Dostoevskij. “L’esito (…) è l’indebolimento, la morte o la pazzia”. Sappiamo che da quel momento in poi ebbe invece avvio, anche per il contratto capestro che lo costrinse a una prolificità a tappe forzate, la sua più grande stagione creativa. Anzi, è accertato che con il passare degli anni gli attacchi si diradarono.
Le testimonianze a volte inattendibili lasciate da mogli, amici e medici curanti intorno a crisi, amnesie, accessi si rincorrono per tutta la vita e anche dopo, quando si provò a ricostruire un’anamnesi difficoltosa: un caso di allucinazione acustica all’età di sette anni, un’afasia passeggera, le assenze in luogo pubblico e i racconti degli attacchi notturni, i resoconti dell’amico Strakhov o dell’amica Kovalevskaya secondo i quali Dostoevskij paragonava il momento antecedente all’attacco alla visione paradisiaca di Maometto.
Di certo, al di là di qualche salasso, non si tentò mai alcuna cura e questo non era insolito per un’epoca che ancora tendeva a marchiare l’epilessia come un male dell’anima. Resta la tragica morte del figlio Aleksej di tre anni, avvenuta quando Dostoevskij ne aveva cinquantasei, dovuta a un attacco epilettico forse sintomatico di qualche infezione cerebrale, e della quale il padre comprensibilmente non seppe darsi pace.
Le nebbie non si dissiparono nemmeno quando, a visitare postumo questo illustre paziente, ci si mise per via indiretta un più che illustre “neurologo”, Sigmund Freud. Nel contestato saggio sul parricidio, pur mettendo le mani avanti sull’insufficienza delle fonti, il padre della psicoanalisi bollò l’epilessia di Dostoevskij come un semplice sintomo di nevrosi e la riclassificò come istero-epilessia, attribuibile a un complesso edipico. Forse piccato per una battuta del libro che definiva la psicologia “un’arma a doppio taglio”, arrivò a scrivere che la “simpatia di Dostoevskij per il criminale è in effetti senza limiti, supera assai i confini della compassione alla quale l’infelice ha diritto, ricorda l’orrore sacro con cui l’antichità guardava all’epilettico e al malato di mente”. Di conseguenza – era la conclusione, forse troppo disinvolta – questa compassione doveva essere fondata sui medesimi impulsi assassini.
Gli ultimi studi, per quanto sempre più disorientati dalla molteplicità delle fonti e delle analisi, tendono a diagnosticare un’epilessia del lobo temporale mesiale sinistro, probabilmente esordita intorno al 1846, quindi al tempo dell’arresto. Resta soprattutto che l’epilessia rivestì un ruolo tanto cruciale nella vita di Dostoevskij da attribuirla a diversi personaggi tra racconti e romanzi, fra cui due figure-chiave, ossia l’ateo suicida Kirillov dei Demonî e, nell’ultimo capolavoro, il figlio illegittimo di Fëdor Karamazov, lo Smerdjakov che simula un attacco per difendersi dall’accusa di omicidio. Soprattutto la incarnò il principe Myškin, al quale fece raccontare la cosiddetta “aura”, il momento estatico che precede l’attacco vero e proprio, arrecando al paziente una visione di grande bellezza.
“Che importa se è malattia?” diceva il suo personaggio più straziante. “Che importa se questa tensione è anormale, quando il suo stesso risultato, l’attimo delle supreme percezioni, ricordato e analizzato in un momento di lucidità, con l’effetto che esso produce, risulta sommamente armonico e sublime, comunicandomi un senso mai provato prima né immaginato di pienezza, di equilibrio, di pace e di fusione, in uno slancio di preghiera con la più alta sintesi della vita?”
Non solo. È singolare notare come l’immagine stessa di questo male si sposi alla poetica di un’opera complessiva, in cui i dilemmi morali e psicologici, la crisi dei valori, le tensioni ideali, il tema della scissione e gli afflati mistici scorrono attraverso un quadro vivido, il cosiddetto “romanzo polifonico”, come un fiume carsico – una corrente sotterranea o una scarica elettrica, appunto – per emergere tutto a un tratto dal sottosuolo, inaspettati e potenti, emblema di una psiche tormentata, ma anche di una delle menti più grandi in tutta la storia della letteratura.
(Questo articolo è uscito qualche tempo fa sulle pagine del Corriere della Sera.)
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