Archivio mensile:ottobre 2012

 

 

 

 

 

 

 

 

Alle prime luci dell’alba

vorrei che lei sparisse. Non mi

fraintendere. Vorrei sparire

anch’io. Vorrei sparisse

anche il mio letto. Il tetto

che vedo dalla mia finestra.

Vorrei che queste case, la città

che si desta, la festa della vita

e della civiltà sparissero

nelle ere del passato per lasciare

soltanto immacolato il piacere

che ci è stato dato.

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“Mi manda Fernanda.” Un mio ritratto della Pivano su “IL”

Avevo una ventina d’anni, studiavo letteratura americana e Fernanda Pivano non era “un mito”, ma un nome imprescindibile, sì. Non essendo ancora arrivata la sbandata per Ligabue e compagnia cantante, la traduttrice di Faulkner e Fitzgerald – che io non osavo nemmeno chiamare “Nanda”, come oggi fa chiunque abbia non dico letto Hemingway ma anche solo sorseggiato un daiquiri – era una figura di mediatrice importante, un’indispensabile traghettatrice. Interviste, traduzioni, prefazioni, curatele, articoli: non c’era bisogno di nutrire interesse nei confronti di una qualsiasi generation – lost, beat, X, chemical, whatever: comunque fasulla – per avere incrociato quel nome poco accademico e molto on the road. Fernanda Pivano aveva “occupyto” l’argomento dell’altra America, lasciando gli atenei ai colleghi blasonati. «Tenetevi le vostre cattedre impolverate», sembrava dire la ragazzina che aveva rischiato il carcere per tradurre Addio alle armi.

(Continua a leggere sul sito del Sole24Ore.)

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L’estate dei barbari

Esce in questi giorni per Einaudi Stile Libero L’estate dei barbari (pp. 560, € 21), un romanzo di satira sociale scritto da Héctor Tobar e tradotto da me medesimo.

Qui la pagina di presentazione sul sito Einaudi.

Qui una recensione apparsa sul “New York Times”.

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All’amica distante

Me la vedo adagiata mentre legge

(senz’altro qualche russo, esiliato

o fuorilegge) vestita come tutte le altre

sere: sigaretta light e mutandine nere.

 

Avrà in mano Majakovskij? o Fuga da Bisanzio?

o poesie della Valduga? Ahi, queste

le danno un languore, un’indolenza…

Quelle mutandine strette? Si può

certo fare senza. L’amica pensa a me,

lontano. Al posto di Iosif Brodskij,

ci vorrebbe la mia mano.

 

Insomma dai, in quel piccante

frangente, il libro galeotto ha poco senso,

lo vedo scivolare e cadere

lentamente. Tocca alla letteratura

delle dita lente.

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Una luce straordinaria. Dostoevskij e l’epilessia

“A un tratto, in mezzo alla tristezza, al buio e all’oppressione, il suo cervello sembrava accendersi di colpo, tendendo in un estremo impulso tutte le proprie energie vitali. In quell’attimo, che aveva la durata di un lampo, la sensazione della vita e il senso dell’autocoscienza sembravano decuplicare di forza. Il cuore e lo spirito si illuminavano di una luce straordinaria. Tutti i dubbi, tutte le ansie e le agitazioni sembravano quietarsi di colpo, si risolvevano in una calma suprema, piena di armonica e serena letizia, di speranza, di ragionevolezza e di penetrazione suprema.”

Oggi non sarà facile presentare queste parole a una persona affetta da epilessia e convincerla del lato estatico di un male che nel corso del tempo ha beneficiato di molte definizioni – variabili anche a seconda del tipo di crisi, però quasi a volerne sempre ribadire l’inafferrabilità: “assenza”, “grande e piccolo male”, “mal caduco”, “sindrome comiziale”, “male sacro” – ma che deve il suo nome ufficiale al termine greco per “attacco”, capace di suscitare più angoscia che pace, più insicurezza che incanto.

Eppure furono queste le parole che Fëdor Dostoevskij mise in bocca a uno dei suoi personaggi più celebri, il mite principe Myškin de L’idiota, per raccontare con tutta probabilità anche il proprio rapporto con un male che lo accompagnò per tutta una vita di tribolazioni e sulla cui natura sussistono ancora più ombre che luci. Di sicuro l’immagine evocata non è la norma. “Solo alcune persone affette da quella del lobo temporale, uno dei molti tipi di epilessia, provano sensazioni assimilabili a quella descritta,” racconta la professoressa Maria Paola Canevini, vicedirettore del centro epilessia dell’ospedale San Paolo di Milano e associato di neurologia all’Università di Milano. “E la cosa non è generalizzabile. Nella mia esperienza non è raro che la prima crisi convulsiva, magari preceduta da anni da episodi ‘minori’, si verifichi in occasione di un trauma importante come un lutto per un familiare.”

Infatti la prima ipotesi – avanzata dalla sorella e oggi confutata, nonostante resti ancora la più suggestiva – è che Dostoevskij ebbe il primo attacco di convulsioni intorno ai diciott’anni, appena saputo della morte del padre, un uomo dispotico e violento che, sempre secondo leggenda, venne assassinato dai propri servitori, esasperati dai soprusi. Di sicuro, non molti anni dopo la morte traumatica di questa figura amata e temuta – successiva alla perdita della madre per tisi – il giovane Dostoevskij venne arrestato come sovversivo e condannato a morte, per venire graziato di proposito solo pochi minuti prima dell’esecuzione e deportato in Siberia. Qui gli stenti e la paura contribuirono a esasperarne lo stato di salute e a rendergli evidente il malessere, di cui forse in precedenza aveva sottovalutato la gravità.

Si presume che in seguito alle prime nozze con Marija Dimitrevna – sempre nel tentativo, quasi agiografico, di far combaciare l’affioramento del male con gli snodi più rilevanti di una vita – Dostoevskij venne colpito da un fortissimo attacco che lo lasciò immobilizzato a letto per qualche giorno. In realtà pare fosse più dovuto allo champagne. “In assenza di terapia farmacologica le crisi si ripetono spontaneamente,” spiega la dottoressa Canevini. “Ma a volte si riscontrano dei fattori favorenti. E l’alcol in questo caso può aver giocato un ruolo nel peggiorare la frequenza delle crisi”.

In ogni caso nemmeno la lettera che l’autore del già acclamato Povera gente scrisse allo zar, per convincerlo a lasciarlo tornare a Pietroburgo da Tver’, dove si trovava ancora relegato sulla base della condanna precedente, fuga i dubbi. “A ogni attacco perdo la memoria, la capacità immaginativa, le forze fisiche e spirituali,” scriveva Dostoevskij. “L’esito (…) è l’indebolimento, la morte o la pazzia”. Sappiamo che da quel momento in poi ebbe invece avvio, anche per il contratto capestro che lo costrinse a una prolificità a tappe forzate, la sua più grande stagione creativa. Anzi, è accertato che con il passare degli anni gli attacchi si diradarono.

Le testimonianze a volte inattendibili lasciate da mogli, amici e medici curanti intorno a crisi, amnesie, accessi si rincorrono per tutta la vita e anche dopo, quando si provò a ricostruire un’anamnesi difficoltosa: un caso di allucinazione acustica all’età di sette anni, un’afasia passeggera, le assenze in luogo pubblico e i racconti degli attacchi notturni, i resoconti dell’amico Strakhov o dell’amica Kovalevskaya secondo i quali Dostoevskij paragonava il momento antecedente all’attacco alla visione paradisiaca di Maometto.

Di certo, al di là di qualche salasso, non si tentò mai alcuna cura e questo non era insolito per un’epoca che ancora tendeva a marchiare l’epilessia come un male dell’anima. Resta la tragica morte del figlio Aleksej di tre anni, avvenuta quando Dostoevskij ne aveva cinquantasei, dovuta a un attacco epilettico forse sintomatico di qualche infezione cerebrale, e della quale il padre comprensibilmente non seppe darsi pace.

Le nebbie non si dissiparono nemmeno quando, a visitare postumo questo illustre paziente, ci si mise per via indiretta un più che illustre “neurologo”, Sigmund Freud. Nel contestato saggio sul parricidio, pur mettendo le mani avanti sull’insufficienza delle fonti, il padre della psicoanalisi bollò l’epilessia di Dostoevskij come un semplice sintomo di nevrosi e la riclassificò come istero-epilessia, attribuibile a un complesso edipico. Forse piccato per una battuta del libro che definiva la psicologia “un’arma a doppio taglio”, arrivò a scrivere che la “simpatia di Dostoevskij per il criminale è in effetti senza limiti, supera assai i confini della compassione alla quale l’infelice ha diritto, ricorda l’orrore sacro con cui l’antichità guardava all’epilettico e al malato di mente”. Di conseguenza – era la conclusione, forse troppo disinvolta – questa compassione doveva essere fondata sui medesimi impulsi assassini.

Gli ultimi studi, per quanto sempre più disorientati dalla molteplicità delle fonti e delle analisi, tendono a diagnosticare un’epilessia del lobo temporale mesiale sinistro, probabilmente esordita intorno al 1846, quindi al tempo dell’arresto. Resta soprattutto che l’epilessia rivestì un ruolo tanto cruciale nella vita di Dostoevskij da attribuirla a diversi personaggi tra racconti e romanzi, fra cui due figure-chiave, ossia l’ateo suicida Kirillov dei Demonî e, nell’ultimo capolavoro, il figlio illegittimo di Fëdor Karamazov, lo Smerdjakov che simula un attacco per difendersi dall’accusa di omicidio. Soprattutto la incarnò il principe Myškin, al quale fece raccontare la cosiddetta “aura”, il momento estatico che precede l’attacco vero e proprio, arrecando al paziente una visione di grande bellezza.

“Che importa se è malattia?” diceva il suo personaggio più straziante. “Che importa se questa tensione è anormale, quando il suo stesso risultato, l’attimo delle supreme percezioni, ricordato e analizzato in un momento di lucidità, con l’effetto che esso produce, risulta sommamente armonico e sublime, comunicandomi un senso mai provato prima né immaginato di pienezza, di equilibrio, di pace e di fusione, in uno slancio di preghiera con la più alta sintesi della vita?”

Non solo. È singolare notare come l’immagine stessa di questo male si sposi alla poetica di un’opera complessiva, in cui i dilemmi morali e psicologici, la crisi dei valori, le tensioni ideali, il tema della scissione e gli afflati mistici scorrono attraverso un quadro vivido, il cosiddetto “romanzo polifonico”, come un fiume carsico – una corrente sotterranea o una scarica elettrica, appunto – per emergere tutto a un tratto dal sottosuolo, inaspettati e potenti, emblema di una psiche tormentata, ma anche di una delle menti più grandi in tutta la storia della letteratura.

(Questo articolo è uscito qualche tempo fa sulle pagine del Corriere della Sera.)

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Roland/2

Gli amici di Torno giovedì mi hanno chiesto di pubblicare il racconto che ho scritto per la serata a Roland. Comincia così:

Eccomi lì, ubriaco al bancone di un bar: intorno, solo un barista scialbo e un locale che anche lo sgabello avrebbe paragonato a quel quadro di Edward Hopper. Certo, a parte il fatto che non c’era la maliarda vestita di rosso, che non era un diner, che non si chiamava Phillies e che non eravamo in una città americana, non eravamo poi tanto distanti. Baricco avrebbe detto che era come stare in un quadro di Edward Hopper senza stare in un quadro di Edward Hopper. Beato lui, che un po’ di libri li vendeva. Io ero a un punto morto. E tutto per un eccesso di zelo. “Pensa a Hemingway” mi avevano detto al corso di scrittura. “Scrivi solo di ciò che conosci.”

(Continua a leggere su Torno giovedì.)

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