Archivio mensile:marzo 2012

“Un’indimenticabile galleria di personaggi.” Sergio Garufi, La vie en beige

Se è vero che la maggior parte della gente, entrando in libreria, decide se acquistare o meno un libro da ciò che legge nelle prime pagine, allora L’unico scrittore buono è quello morto, l’opera più recente di Marco Rossari, ha buone probabilità d’incontrare il favore del pubblico. All’inizio infatti c’è un piccolo e prezioso apologo sulla scrittura, intitolato “Dio e le carote”, in cui l’autore racconta con leggerezza due episodi della sua vita. Il primo è legato alla scuola. Pare che l’incubo di tutti gli studenti della scuola di Rossari fossero le carote, cucinate in modo immangiabile da una tizia soprannominata eloquentemente “la Lurida”. Angelino, un suo compagno di classe, fingeva di mangiarle e le metteva nella tasca del grembiule, per poi disfarsene una volta uscito. Un giorno il trucchetto fallì. Forse un delatore avvisò il preside, dal nome improbabile di Livorio Smricchio, e questi gli intimò di vuotare le tasche. Poi gli chiese “perché l’aveva fatto?”, e incassata la risposta (“per dispetto”) gli aveva mollato un manrovescio che lo aveva steso a terra.

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“Io non scrivo, io pubblico.” Francesco Berno, Pensieri di cartapesta

Si rimane sempre tendenzialmente interdetti davanti ad ogni centiloquio. L’unità di senso che si cerca di proiettare come esigenza propria del lettore cade nel vuoto, ultima violenza di un autore che taglia le righe, premette parentesi, accorpa il testo sulla destra di un margine inconsueto… È proprio vero: L’unico scrittore buono è quello morto.

La nuova fatica -si dice così, no?- di Marco Rossari è un divertente catalogo di piccole abiezioni e grandi sconfitte, intervallate dalle miserie quotidiane che la naturale trascuratezza dell’essere umano ci impone a cadenza regolare. E così troviamo Tolstoj alle prese con un irritante, ma non poi così improbabile, conduttore radiofonico, e senza soluzione di continuità ora siamo nel bel mezzo di uno sfortunato incontro erotico -l’unico possibile?- tra uno scrittore ed una sua lettrice.

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“Un’opera mobile, cangiante.” Stefano Costa, i-libri

Diversi testi già editi in riviste, il gusto per la concisione, molto di nuovo, di vario nella propria lunghezza, nel respiro della prosa. Queste caratteristiche fanno di L’unico scrittore buono è quello morto un’opera mobile, cangiante. L’ho percepita come un’opera in grado di incerare un profondo dialogo con il lettore. Proprio come durante una conversazione, infatti, ci si misura con “sezioni larghe” dall’ampio respiro prosastico – quelle che richiedono un ascolto prolungato – e con battute brevi, con ragionamenti articolati e con botta-e-risposta serrati, con invenzioni e con spunti che paiono vicini alla confessione.

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“Tragicomiche verità.” Andrea Pomella, Il Fatto Quotidiano

Ci sono recensioni che non si può fare a meno di titolare come il libro che si va a recensire, e questo perché tutti gli altri titoli possibili non potranno mai reggere il confronto. È il caso de L’unico scrittore buono è quello morto (edizioni e/o) uno di quei titoli, appunto, che non passano inosservati, soprattutto – mi sia concesso – se si è, o si è provato a essere, uno scrittore. Ma anche se si è qualcos’altro, per esempio un lettore, meglio se compulsivo, o semplicemente un appassionato di letteratura, ma talmente appassionato da aver perso la bussola.

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La madre di tutte le malattie

Nel 2010 più di sette milioni di persone nel mondo sono morte di tumore. Circa il quindici per cento dei decessi. È con queste cifre, un vero e proprio bollettino di guerra, che si apre il monumentale libro di un oncologo americano di origine indiana dedicato alla madre di tutte le malattie. Un’opera che è prima di tutto un mosaico di storie, a volte insolite, altre ancora conosciute, sempre drammatiche. Una serie di tappe esaltanti e crudeli in cui non esistono comprimari: anzi, proprio come in un romanzo corale, qui tutti sono protagonisti.

Con L’imperatore del male. Una biografia del cancro (Neri Pozza 2011, 730 pp., € 18,00, traduzione di Roberto Serrai), Siddharta Mukherjee si è aggiudicato il Premio Pulitzer per la saggistica – forse la più prestigiosa onorificenza letteraria americana – e l’inserimento nella lista del “New York Times” con i dieci migliori libri dell’anno. Chi l’avrebbe detto non molto tempo prima quando, dopo un paio d’anni da borsista al Massachusetts General Hospital di Boston, il giovane ricercatore si ritrovò a porsi una serie di domande angoscianti, nate dall’osservazione diretta di aspettative e sofferenze sul volto dei pazienti.

Dov’era cominciata questa storia? Per capirlo bisognava fare un lungo passo indietro.

Nel 1862, un mezzo truffatore e sedicente egittologo acquistò o forse sgraffignò un papiro da un antiquario di Luxor. Il papiro venne datato al diciassettesimo secolo a.C., classificato come la trascrizione (piuttosto frettolosa, a dire il vero, visto che era zeppa di errori) di un manoscritto risalente addirittura al 2500 a.C., ma fu tradotto solo nel 1930. A quanto pare conteneva gli insegnamenti di Imhotep, un medico egiziano vissuto intorno al 2625 a.C., un po’ visir e un po’ neurochirurgo, mezzo architetto e mezzo astrologo. Un personaggio di stampo quasi rinascimentale, avvicinato perfino dai greci alla grandezza di Eusculapio. Anzi, più che lezioni, la pergamena conteneva la semplice descrizione di quarantotto casi. Malattie, in breve. Con tanto di diagnosi, anamnesi e prognosi. Era nel caso numero quarantacinque che Imhotep raccontava un episodio di problemi “al petto, rigonfiamenti grossi, diffusi e duri; toccarli è come toccare una palla di stracci”. Erano paragonabili a un frutto acerbo, continuava, “freddo e duro al tatto”. In tutta probabilità si trattava della prima descrizione di cancro al seno. Ogni altra malattia era seguita da un’ipotesi di terapia, per quanto sommaria. Solo nel caso quarantacinque Imhotep taceva.

Ci sarebbero voluti altri duemila anni per ritrovare qualcosa che potesse assomigliare al cancro: nelle Storie, risalenti al 440 circa, Erodoto raccontò la figura di Atossa, moglie di Dario e regina di Persia, che si accorse di un nodulo al petto, forse causato da una forma maligna di cancro al seno. La sua reazione, racconta lo storico, fu di trincerarsi dietro al silenzio e alla solitudine, nascondendo il corpo per la vergogna.

In realtà erano testimonianze ambigue, forse inaffidabili. Sembrerà assurdo ma per arrivare al primo caso accertato di cancro nell’antichità bisognava tornare avanti nel tempo, fino a pochi anni fa. Nel 1990 furono analizzati i resti mummificati di un’intera tribù, rinvenuti in un sepolcro vecchio di mille anni nel deserto peruviano di Atacama. Un paleopatologo “visitò” a distanza di ere una donna sulla trentina, trovata seduta in una tomba d’argilla, riscontrando una “massa bulbosa” sotto l’ascella. La diagnosi fu di osteosarcoma.

I casi antichi, in sostanza, si contavano sulla punta delle dita. Ma perché?

Proprio da qui bisognava partire per ricostruire la vicenda di una malattia che è considerata strettamente moderna per un motivo tanto semplice quanto inquietante: per imporsi statisticamente ha dovuto aspettare che l’essere umano allungasse l’aspettativa di vita e che la malattia trovasse una propria identità. Il crudele paradosso della “bile nera”, come lo chiamava Galeno, è questo: solo con il progresso della civiltà ha guadagnato una visibilità che l’ha resa, appunto, “l’imperatore del male”. Eliminate le altre cause di decesso, ecco emergere un antico morbo connaturato alla società, che genera un macabro controsenso: “Se cerchiamo l’immortalità,” chiosa mestamente l’autore, “in maniera alquanto perversa, la cerca anche la cellula tumorale”.

La contraddizione insita in quello che Ippocrate in greco aveva battezzato karkinos, per la somiglianza a un “granchio”, ha stimolato questo oscuro ricercatore dal nome tanto rasserenante (e incongruo, visto l’argomento trattato) a esplorarne la biografia per restituirci il senso di una battaglia dolorosa e avvincente. La medicina comincia con un racconto, scrive. E così, con sguardo analitico ma sempre compassionevole, Mukherjee riporta una vicenda di errori e scoperte, di eroi inconsapevoli e involontari sacrifici. Accantonati Imhotep e Erodoto, si va dalla chirurgia radicale praticata da William Stewart Halsted nell’Ottocento ai primi rocamboleschi tentativi con i raggi X, dalle scoperte di Paul Ehrlich sul passaggio nell’uso dei coloranti dai tessuti alle cellule viventi fino agli esiti inaspettati dell’agghiacciante bombardamento di Ypres, passando per il ruolo di un bambino soprannominato Jimmy nella raccolta fondi che fece uscire la malattia dall’oscurità e diede il via all’intervento della politica e all’impegno verso la prevenzione. Non manca un ruolo italiano, grazie alle pagine su Gianni Bonadonna e Umberto Veronesi, che nel 1973 all’Istituto dei Tumori di Milano diedero un contributo più che rilevante alla ricerca, avviando un trial per studiare gli effetti della chemioterapia adiuvante sul cancro al seno allo stadio iniziale. Un esperimento riuscito che, in un momento di profonda spaccatura tra chirurghi e chemioterapisti, sbalordì la comunità scientifica.

Eppure la storia di questa malattia non è solo quella dei medici, “gettati nella confusa prima linea della medicina oncologica, a fare giochi di prestigio con le combinazioni di farmaci più tossiche e futuristiche possibili”, ma è anche quella dei pazienti che si battono e sopravvivono, passando da uno stadio della malattia all’altro. “La capacità di recupero, l’inventiva, e la volontà di sopravvivere” racconta Mukherjee “sono qualità riflesse, che emanano dapprima da chi lotta contro la malattia e solo dopo sono rispecchiate da chi cura la malattia”. Sommersi, salvati e salvatori sembrano tutti tendere a un unico fine. Invisibile, eppure onnipresente.

Forse per questo, quando l’autore del libro va a trovare – in mezzo a un paesaggio mozzafiato di laghi cristallini e betulle a perdita d’occhio, in un angolo remoto del Maine – una dei pochi pazienti sopravvissuti molti anni prima a una terapia sperimentale, lei riesce solo ad ammettere il senso di colpa: “Non so perché meritassi la malattia, ma non so nemmeno perché abbia meritato di guarire”. Quella donna forse non conosceva il significato di una parola che ha unito la propria storia a quella del cancro: onkos, che in greco voleva dire “massa” o “carico”. Quel peso, passato di mano in mano come una terribile fiaccola, è il protagonista di un racconto che riguarda la sopravvivenza di tutti. La nostra, come quella della regina Atossa, migliaia d’anni fa.

(Questo mio articolo è uscito qualche mese fa sul Corriere della Sera.)

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Nel tratto del silenzio

cerco il tuo autoritratto:

la trasparenza dell’assenza.

Trovo la materia al tatto,

la sudicia consistenza

di uno straccio.

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“Un universo di carta”. Mallarmeana, Parole senza rimedi.

“Se la poesia è dappertutto non è da nessuna parte”. Il terreno della metaletteratura, si sa, è pericolosissimo. Se lo si affronta, tuttavia, con ironia tagliente e disincanto surreale – nutrito da un bagaglio letterario raffinatissimo – il risultato è sorprendente. L’unico scrittore buono è quello morto di Marco Rossari racconta, mediante una serie di “ritratti”, di varia lunghezza, il mondo degli scrittori e della scrittura in modo acuto e sferzante. (…)

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“La strana razza degli scrittori.” Chiara Rea, Via dei serpenti

Che strana razza quella degli scrittori. Esibizionisti ma spesso schivi, ci regalano un pezzo della propria interiorità attraverso i loro libri eppure sono spesso reticenti a parlare di sé; sostengono che conta solo il testo ma poi non si sottraggono alle polemiche via web e si offendono tra di loro per questioni personali . Sono tutto e il contrario di tutto – e considerando che, in fondo, sono pur sempre persone, la cosa non meraviglia troppo.
Marco Rossari è uno che gli scrittori li ha osservati bene. Oltre a essere scrittore lui stesso, è anche traduttore, mestiere che gli ha dato la possibilità di osservare sul campo le molteplici bizzarrie caratteriali degli scrittori. Ma Rossari non conosce bene soltanto chi scrive, conosce benissimo anche i lettori, gli editori, i critici, i giornalisti e tutto quel sottobosco di strani personaggi che gravitano intorno agli scrittori: fan, groupies, antagonisti, invidiosi, adulatori, e chi più ne ha più ne metta. Rossari ha raccolto tutto questo in un libro che ha il merito di divertire senza essere vuoto e di essere leggero senza diventare frivolo.

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“Il libro sui libri.” Carlotta Susca, Pool

Pensateci. State leggendo un articolo che parla di un libro. La carta inchiostrata del volume fresco di tipografia sta generando in questo momento – sotto i vostri occhi, e per tutte le volte in cui qualcuno leggerà queste righe – una propaggine testuale. Ieri il libro di Rossari non esisteva e oggi – e da oggi in poi – altri ne scrivono e ne scriveranno, aggiungendo frasi a frasi, glosse e citazioni. Commenti. Giudizi, pareri. Teorie, perché no. Questo è ciò che succede con le parole, finisce sempre che prendono una strada propria, svincolandosi dall’autore. Questo è quello su cui riflette Rossari. E sull’editoria come sistema dagli aspetti paradossali e a volte buffi. Tolstoj invitato in una trasmissione radio italiana ai giorni nostri non potrebbe che essere in contrasto con la superficialità dei tempi attuali, con un intrattenimento culturale raccogliticcio e frettoloso; Dante affronterebbe un editor cauto, che gli consiglierebbe di uniformare il tono delle tre parti del suo manoscritto e di evitare di fare troppi nomi: non si sa mai, meglio non esporsi, di questi tempi. Joyce morirebbe inedito. Perché l’editoria sarà anche il campo degli esperti, sottintende Rossari, ma non è detto che questi pontifichino sempre per il meglio. Accanto alle scene che vedono dei mostri sacri della letteratura alle prese con i saccenti editor odierni Rossari ci propone svariati esempi di abulia da letteratura: lo scrittore che risale involontariamente al linguaggio primitivo – con conseguente incapacità di acquisto in panetteria –, quello condannato a essere osannato dalla critica nonostante i tentativi di autosabotaggio, lo scrittore invitato a un surreale reading di poesia, l’esordiente molestato dalla prima lettrice, il traduttore in crisi da intraducibilità, vittima del démone della perfezione. E il reporter sulle tracce della generazione beat, e il viaggiatore piombato in un incubo in Kafkania. L’unico scrittore buono è quello morto è l’opera colta e ironica di un addetto ai lavori ancora capace di (auto)ironia, il libro sui libri di chi sa distinguere fra letteratura e fuffa ma deve districarsi fra le due per lavoro, oscillando fra il disincanto e un ineliminabile nucleo di amore profondo per i libri. Il testo di Rossari, pubblicato da e/o, può essere letto in ordine sparso, a seconda del tempo a disposizione e dell’ispirazione, ma il quadro che se ne ricava è molto chiaro e unitario: non viviamo in tempi che facilitino l’espressione del genio letterario (verrebbe da dire, con John Barth, «Letteratura, ah! Bei tempi, quelli!»). D’altra parte, fra tanta carta e tanto inchiostro (e tanti pixel, e tanto html), sorge il dubbio che neanche gli addetti ai lavori leggano poi tantissimo, quindi non è la letteratura a essere in crisi, ma la competenza, spesso. Sicché, se qualcuno grida alla morte della letteratura, si potrebbe rispondere, citando Rossari, «C’era uno scrittore che considerava la letteratura finita, anche perché non leggeva mai un libro». Leggete (libri) e moltiplicateli.

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