Qualche anno fa mi sono trovato in cima all’Empire State Building insieme al tipo d’amico – temibile, in vacanza – capace di lanciarsi con l’elastico dalle Victoria Falls in Zimbabwe, di farsi arrestare per possesso di droga in Cambogia e perfino di guidare in motorino a Roma, un impunito che in quell’occasione – dopo averlo rifiutato a ogni mendicante della città – ha lanciato un quartino nel cielo di New York. Per anni mi sono svegliato nel cuore della notte convinto che avesse accoppato un passante. O, peggio, ammaccato una Rolls-Royce.
Oggi, grazie ai Mythbusters (che hanno sfatato anche quel mito), avrei potuto finalmente dormire sonni tranquilli. Invece mi capita di andare a San Francisco in visita al set esplosivo della trasmissione grazie alla quale Discovery si è lasciata alle spalle l’immagine placida di rete protetta dove i panda sgranocchiano il bambù. Il nuovo slogan recita: «Se hai le mani sudate e ti sta battendo forte il cuore…» Benzedrina, direte voi. Sbagliato: «Stai guardando Discovery Channel». Sotto, un poveretto impavido dondola appeso ai pattini di un elicottero.
«Avrebbero potuto mettere il panda appeso all’elicottero» butto lì a un giornalista norvegese, tale Åsbjørn, che incontro sull’autobus verso il set.
«Ma in questo caso il panda sei tu.»
E non sono affatto sereno. Io vado in crisi per una lampadina bruciata, mi basta risolvere un sudoku per sentirmi Kurt Gödel e la mia idea di adrenalina è un saggio su Joyce. Mi definirei «aprassico», se sapessi cosa vuol dire.
Qui invece non si scherza.
Con più di 700 miti testati e altri cento in cantiere, il programma – che nasce in Australia ma viene girato qui in California – è arrivato alla settima stagione grazie a un successo planetario. Jamie Hyman e Adam Savage, i presentatori, sono diventati membri onorari di diverse associazioni scientifiche e perfino la Nasa ogni tanto si scomoda per consultarli. Un po’ CSI e un po’ Dottor M, i due hanno sfatato miti o credenze di ogni tipo: da quelli di ordine linguistico (è così difficile trovare un ago in un pagliaio?) a quelli cinematografici (vedi gli speciali dedicati a Point Break o allo Squalo), dalle imprese più spericolate (è possibile respirare sott’acqua inalando l’aria da un pneumatico?) a leggende poetiche (da Letterman, grazie a migliaia di palloncini, hanno sollevato – alla Banksy – un adulto da terra).
«Peccato che non ci abbiano concesso di usare una bomba atomica» si rammaricherà Jamie, durante il nostro incontro.
Il paradosso è che se storicamente la scienza ha sempre lottato per dimostrare qualcosa in cui nessuno credeva, i Mythbusters devono verificare qualcosa in cui già credono tutti. Smentire i luoghi comuni, demolire le leggende metropolitane. Se viviamo nell’epoca del fake, questo è l’esatto opposto. Jamie e Adam, supportati da un formidabile team, attraversano le paure irrazionali della nostra epoca, gli esorcismi stratificati con il tempo, le scene più celebri del cinema d’azione per riportare tutto a una dimensione scientifica. Azioni spericolate, polvere da sparo, trial-and-error sono il loro pane, shakerati a scariche d’adrenalina e ampie dosi di umorismo. Oltre a un catalogo di botte, lividi, abrasioni in cui sono sempre sul punto di perdere una falange o bruciarsi il cuoio capelluto. E quello è il momento in cui si stanno divertendo di più.
«Ci saranno esplosioni?» domandiamo alla troupe.
«No.»
Tiriamo tutti un sospiro di sollievo.
Appena arrivati giriamo per un magazzino imponente. Pensate a una cassetta per gli attrezzi e moltiplicate per mille. Ok, poi per diecimila. Ci sono prototipi, giocattoli, marionette, robot, modellini. Una Wunderkammer che avrebbe mandato in visibilio se non Batman, certo il Joker. Davanti ho un muro di scatole con dentro parrucche, fiocchi di neve, pistole, foglie, qualsiasi altra diavoleria. Appeso a una parete c’è uno squalo enorme (l’hanno costruito in quattro giorni e distrutto in quattro minuti), il jet in miniatura usato per Top Gun (concepito per Tom Cruise, dicono i maligni), un Mugwamp uscito dritto dal Pasto nudo di Cronenberg (ci guarda perplesso, ma forse è ancora fatto).
Passa un cagnolino.
«Quello è un animatronic» mi fa Åsbjørn. «Me l’ha detto un cameraman.»
Ed è pazzesco, perché è tale quale a un cane, tanfo compreso.
Entriamo in una stanzetta piena di rottami. C’è un bidone bucherellato da una sventagliata di mitra, una balestra fatta con la carta di giornale, una bombola di gas esplosa, il modellino del modulo per l’allunaggio.
«Non toccate» ci dicono impauriti i nostri accompagnatori. «Potresti farvi male.»
Così ci accontentiamo di maneggiare alcune simpatiche pallette marroni sul tavolo, per scoprire un attimo dopo che sono fatte con lo sterco di leone. Le posiamo.
A quel punto arrivano i Nostri.
Jamie ha un portamento marziale: collo taurino e basco sulle ventitré (il padre era nell’esercito). È il tipo d’uomo che se gli chiedi di dimostrare l’esistenza di Dio prende un cacciavite e ti risponde: «I’m workin’ on it». Oltre alla perenne camicia bianca, è riconoscibile per i baffoni a manubrio, tipo quelli dei leoni marini spaparanzati sotto il sole al molo 39 del porto di San Francisco. È cresciuto in Indiana, ma a quattordici anni se n’è andato di casa.
«Mi sentivo indipendente, tutto qua» minimizza.
«Chiaro» penso io, che a quattordici anni andavo perfino al cinema da solo.
In seguito ha preso una laurea in russo ed è finito a insegnare immersioni nei Caraibi (se cercate un nesso tra le due cose, non avete mai conosciuto un americano). Lo sbocco naturale della lingua di Pasternak e dei diving center è stato l’industria degli effetti speciali e poi questo programma.
«Guarderesti il tuo stesso show?»
«Se potessi chiudere il becco a quei due pagliacci e avere qualche dato in più, forse sì.»
Åsbjørn azzarda qualche domanda fuori dagli schemi: «Quand’è l’ultima volta che hai pianto?»
Jamie si volta lentamente, con l’aria del T-Rex in Jurassic Park che localizza il programmatore occhialuto in fuga. «Prego?»
Meglio squagliarsela e dare un’occhiata al suo ufficio, dove accanto a libri di nicchia come Moby-Dick, per fortuna trovo classici come Build your own combat robot e Metal Handwork. Intanto si aggiunge Adam Savage che, a dispetto del cognome, è un impossibile mix fra Woody Allen e MacGyver. Figlio di un pittore e di una psicoterapeuta, coltiva una seconda carriera da artista e alle implacabili domande di Åsbjørn risponde che piangere tutti i giorni lo aiuta molto.
Se Jamie ha l’aria di chi ha sempre di meglio da fare, Adam sembra un bambino in una pasticceria. (O, per definirli in breve: il primo uso un Ibm, il secondo un Mac.)
Ci portano al secondo studio, altro capannone dove assistiamo ai classici centododici ciak stile «fischio maschio senza raschio» dei tre comprimari, il ragazzone Tory Belleci, il piccolino Grant Imahara e la bellona Jessi Combs. Alle pareti si trovano le reliquie delle passate imprese: la zattera di fortuna per evadere da Alcatraz, il manichino per surfare con la dinamite e un cane animatronic per attirare gli squali.
«E il cagnolino di là?» domando a un cameraman.
«Quello è vero, si chiama Huxley.»
Åsbjørn si defila.
Poco più in là, due tecnici riprendono un bambolotto in volo: uno maneggia la telecamera ad alta definizione e l’altro lo lancia nel vuoto.
«Hai capito perché lanciano il bambolotto?» domando.
«No, però è bellissimo.»
E in effetti restiamo incantati davanti all’immagine del bambolotto che vola al rallentatore centinaia di volte.
La giornata è finita.
In serata, vado al bar dell’albergo per bermi qualcosa e trovo Åsbjørn con l’aria malinconica.
«Qualcosa non va?» gli faccio.
«Stavo pensando al bambolotto.» Fa un gesto con la mano. «Puff…»
«Già.» La conversazione langue: provo ad alzare il tono. «Non ti sembra che il vero mythbuster ante-litteram fosse Galileo Galilei? Insomma, quando sale sulla torre di Pisa e lascia cadere due oggetti di peso diverso non è proprio quello che sta facendo?»
«Gallilio…» fa Åsbjørn, meditabondo. «È un programma Discovery, no?»
(Questo articolo è uscito un secolo fa su Wired.)
Devi effettuare l'accesso per postare un commento.